Viaggi e avventure

Laos, l’Indocina trovata

StampaCapitale: Vientiane
Repubblica Popolare Democratica del Laos (RPDL) dal 1975, quando il movimento comunista del Pathet Lao prese il potere, rovesciando il re Savang Vatthana. Confina con Vietnam, Cina, Cambogia e Myanmar. Il Paese è percorso dal fiume Mekong (1898 km nel Laos su un totale di 4200 km), navigabile ma di portata pressoché irregolare, e segna per un lungo tratto i confine con la Thailandia. Lo stato si estende in lunghezza da nord a sud per circa 1000 km, mentre la larghezza raggiunge a tratti appena un centinaio di chilometri. Il territorio è costituito prevalentemente di montagne e altopiani e le foreste ricoprono circa del 53% della superficie. Sulla base del censimento del 1995, nel territorio del paese risiedono 47 diverse tribù, che hanno differenti tradizioni e costumi, e fanno parte di tre principali gruppi: Lao Lum, Lao Song e Lao Teung.

Laos
Il Laos è un paese povero e arretrato che soltanto nel 1989 ha aperto le porte agli stranieri consentendone, tra l’altro, l’ingresso esclusivamente per motivi di lavoro. Dal 1998 inoltre è possibile ottenere anche il visto turistico, a seguito della storica decisione del governo di affrancarsi dalla politica isolazionista che lo ha sempre contraddistinto. Una vera rivoluzione epocale!
Le frontiere aperte, tuttavia, non significano necessariamente, diffusione del “turismo”. Il paese continua a restare una meta indifferente al mondo occidentale, per cui visitare il Laos è come entrare in un mondo fermatosi nel passato, ancora incontaminato dal forestiero dove, più che altrove, si percepisce l’atmosfera dell’Indocina di una volta.

Vientiane, la capitale, conserva un’atmosfera esotica e rilassata. Non esiste traffico, non c’è confusione e tanto meno frenesia, niente di occidentalizzato. Il modo migliore per visitarla è con il tuk-tuk (ape a tre ruote) il mezzo di trasporto più diffuso in Laos. Sulla via principale basta alzare un braccio per fermarne uno e scoprire una delle difficoltà che s’incontrano a viaggiare nel paese: la comunicazione. Gli autisti, tanto i giovani quanto gli anziani, non capiscono una parola di inglese, neppure aiutandosi con una mappa della città è facile comprendersi. E’ complicato farsi portare al Wat Si Saket, il più famoso di Vientiane, figurarsi negli altri… La celebrità del “monastero” è dovuta alle 2000 immagini del Buddha molte delle quali scolpite all’interno di piccole nicchie.

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Stessi problemi per farsi accompagnare al Pha That Luang, il grande stupa sacro, il monumento più importante di tutto il Laos, simbolo della religione buddhista e della sovranità nazionale, tanto che appare sulla bandiera della nazione. Si vede, già da lontano, stagliarsi, dorato com’è, in netto contrasto con il cielo scuro e grigio. La leggenda racconta che il reliquario conservi lo sterno del Buddha da ciò se ne può dedurre l’importanza per il buddhismo. A metà giornata si scatena un acquazzone che trasforma le strade in fiumi d’acqua, ma nulla si ferma. Lungo il Mekong è un susseguirsi di decadenti edifici coloniali e rinomati ristoranti in uno dei quali inevitabilmente si finisce a cenare al calar del sole. Sono quasi le 23.00 quando il proprietario c’invita a tornare in albergo, spiegandoci quella sorta di coprifuoco, non ufficiale, che vige a Vientiane. Se trovati in strada dopo mezzanotte la polizia ha l’ordine di riaccompagnarvi in hotel.

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Dopo 390 km di curve e saliscendi, in direzione nord, percorrendo la mitica route 13, s’arriva a Luang Prabang e se a Vientiane il tempo sembrava essersi fermato, qui si è fermato per davvero. A Luang ogni risveglio trasuda di sacro, per via della famosa “questua” che si ripete tutte le mattine all’alba. Capelli ispidi e occhi pesti, sono appena le cinque, quando ci avviamo sulla via principale. Delle persone stendono sul marciapiede, sopra una stuoia, panieri di bambù pieni di riso caldo. Poco per volta la strada si riempie di gente che, seduta o inginocchiata, aspetta l’arrivo dei monaci per offrire loro un pugno di riso che deposita nei vasi di legno che ogni monaco porta a tracolla. Costoro per consacrare tutto il loro tempo alla preghiera vivono dell’elemosina dei cittadini. Eccoli, i monaci. Si muovono in lunghe file, composti e in silenzio, gli anziani davanti e i giovani dietro. Ogni fila corrisponde ad un monastero. Nell’aria frizzante del nuovo giorno è perfettamente avvertibile la sacralità della cerimonia. La giornata è focalizzata alla visita dei monasteri per cui la città è stata dichiarata dall’UNESCO patrimonio dell’umanità. I Wat più belli sono il Wat Mai Suwannaphumaham, l’Haw Kham (il palazzo d’oro) e il Wat Xieng Thong. Nel tardo pomeriggio le strade si riempiono di biciclette degli studenti che escono dalle lezioni e i marciapiedi di monaci novizi, vestiti d’arancione, con l’ombrello aperto per ripararsi dai raggi del sole.

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IL MEKONG
Fin dall’imbarco si respira aria di avventura. La piccola baracca che funge da biglietteria e trattoria, presenta ancora larghe chiazze fangose, residui dell’ultima esondazione del fiume. Persino i tavoli, dove facchini e marinai mangiano riso e banane fritte, ne sono ricoperti. Una cassa stereofonica diffonde nell’aria, che odora pesantemente di fiume, il suono di una nenia sempre uguale. Come in ogni altro luogo di partenze, c’è sempre qualche sbandato con i propri problemi che approfitta per fuggire. Non importa dove pur di sparire senza lasciar tracce, di allontanarsi dai debiti, dalla giustizia o da una donna. Da qui, invece, si parte in cerca di luoghi isolati e lontani dal mondo civile. Si risale il Mekong per 300 km, da Luang Prabang a Huay Xai, quanto basta per calarsi in un mondo trapuntato di sperduti villaggi.

Luang Prabang – Pakbeng, circa 160 km
Sulla speed boat i posti sono scomodi e i muscoli tesi, non per la posizione, ma per l’ansia di capovolgersi o andare a sbattere contro qualche masso affiorante. Il rumore del motore è proporzionale alla velocità. Tanto più è assordante tanto più si corre sulla superficie dell’acqua. Si parte e poco alla volta si prende confidenza col mezzo, col fiume e con la velocità. Ad ogni fermata corrisponde un assalto di zanzare su tutte le parti del corpo, ma quando si riparte, la velocità allontana tutto: zanzare, caldo e l’odore di fango. L’ennesimo stop è presso una casa galleggiante. Fuoriesce un giovane che s’infila un tubo in bocca aspira forte finché non vede la benzina e inizia a fare il pieno. L’interno della fatiscente casupola espone ogni sorta di lattine e cioccolato. A tutti gli effetti siamo finiti in un “autogrill del Mekong”. Giungiamo a Pakbeng nel tardo pomeriggio. Trascorro la notte in bianco, torturato dall’umidità, dalle zanzare che trafiggono senza difficoltà la tela della zanzariera e in costante allerta per la presenza di giganteschi gechi sulle pareti della stanza.

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Pakbeng – Huay Xai, circa 140 km
I rumori dei venditori che s’apprestano ad allestire le bancarelle del mercato preannunciano l’alba. I mercanti trasportano i prodotti dentro grossi sacchi che sostengono sulla schiena ricurva, per il peso, con l’ausilio di una cinghia che passa sulla fronte. Giungono da impervi sentieri calzando semplici ciabatte infradito. Accanto ai commercianti di riso, ortaggi e frutta, ve ne sono alcuni che vendono insetti, vivi, rinchiusi in piccole buste di plastica di cui la gente fa’ incetta, altri, smerciano oppio. Infine, la zona della macelleria è raccapricciante per via dei pezzi di carne sanguinante esposti.
Oggi, si salpa con una slow-boat. Il ponte della barca diventa un punto d’osservazione privilegiato. Si assiste allo svolgersi della vita sul Mekong. Osserviamo differenti tipi di piantagioni, uomini impegnati nel lavoro, bambini sguazzare nell’acqua limacciosa, canoe usate come traghetto per spostarsi da una riva all’altra o da villaggio a villaggio, imbarcazioni per il trasporto merci.
Si sosta in piccoli villaggi sulla riva, i quali non hanno neppure un nome. Sono raggiungibili soltanto via fiume, le case sono palafitte di legno con i tetti di paglia e foglie di palma. Colpisce vedere le micidiali bombe usate, nella guerra del Vietnam, riciclate come sostegno delle case e per canalizzare l’acqua nelle risaie. Qui la gente non vive sul fiume, ma del fiume. Non vi è niente di moderno: niente strade, niente auto, niente televisori e tanto meno antenne paraboliche, nessuna radio, niente elettricità. La pesca è l’attività principale insieme alla coltivazione del riso e degli orti che sorgono fitti sulle rive. In un villaggio di etnia Thai Lu alcune donne lavorano su rudimentali telai, altre sono occupate nella produzione del riso. In un villaggio Akha scorgiamo un’anziana fumare una pipa d’oppio. All’invito di seguirla finiamo in una casa dell’oppio, ossia una stanza dove gli uomini si riuniscono per fumarlo. L’ospitalità “sacra” è identica in tutti i villaggi. Si tratta di popolazioni non ancora contaminate dal turismo che vivono secondo le proprie tradizioni.

Il Laos è il Paese più singolare della penisola Indocinese dove, più che altrove, si percepisce l’atmosfera del sud-est asiatico di una volta, la gentilezza di un intero popolo, la fierezza di volti e di visi, e modi di vita tradizionali che un viaggio sul Mekong permette di vivere all’insegna dell’avventura.

Adriano Socchi
www.blucomfort.com/adrimavi



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