L’agricoltura può ancora salvare il mondo, purché sia rigenerativa
Il suolo è il secondo grande serbatoio di carbonio del pianeta, subito dopo gli oceani. Contiene quattro volte più carbonio di tutte le piante e gli alberi del mondo. Ma attività umane come la deforestazione e l’agricoltura industriale (con le arature intensive, la monocoltura e l’uso massiccio di fertilizzanti chimici e pesticidi) lo stanno degradando a ritmi vertiginosi, distruggendo i materiali organici che contiene. Il 40 per cento dei terreni agricoli è attualmente classificato come «degradato» o «gravemente degradato». L’agroindustria ha danneggiato a tal punto il suolo che un terzo dei terreni agricoli del mondo è andato distrutto negli ultimi quarant’anni. E degradandosi, il suolo perde la capacità di trattenere carbonio, rilasciando nell’atmosfera quantità enormi di anidride carbonica.
Per fortuna, una soluzione sta emergendo. Scienziati e agricoltori, in tutto il mondo, stanno sottolineando che possiamo rigenerare i terreni degradati passando da coltivazioni industriali intensive a metodi più ecologici: non solo fertilizzanti organici, ma anche semina senza aratura, compostaggio e rotazione delle colture. E qui viene la parte brillante: quando il suolo si ristabilisce, non solo riacquista la capacità di trattenere anidride carbonica, ma comincia a eliminare attivamente anidride carbonica dall’atmosfera. I dati scientifici a questo proposito sono elettrizzanti: un recente studio pubblicato dall’Accademia nazionale delle scienze degli Stati Uniti sostiene che l’agricoltura rigenerativa può stoccare il 3 per cento delle emissioni mondiali di anidride carbonica. Un articolo su Science indica che questa percentuale potrebbe arrivare fino al 15 per cento. E un nuovo studio del Rodale Institute, in Pennsylvania (anche se non è ancora stato sottoposto a revisione tra pari), oltre ad affermare che i tassi di stoccaggio di anidride carbonica potrebbero arrivare fino al 40 per cento, dice che, se applicassimo le tecniche rigenerative anche alle terre da pascolo di tutto il mondo, potremmo catturare più del 100 per cento delle emissioni mondiali.
In altre parole, l’agricoltura rigenerativa rappresenta forse la nostra chance migliore per raffreddare realmente il pianeta. E si porta dietro un utilissimo effetto collaterale: i metodi rigenerativi producono rese più elevate dei metodi industriali, nel lungo periodo, perché potenziano la fertilità dei terreni e li rendono più resistenti a siccità e inondazioni. Perciò, quando i cambiamenti climatici renderanno più difficile coltivare la terra, questa potrebbe essere la nostra chance migliore anche sul piano della sicurezza alimentare. Naturalmente l’agricoltura rigenerativa non offre una soluzione permanente alla crisi climatica, perché i terreni possono trattenere solo una certa quantità di carbonio. Dovremmo comunque liberarci dei combustibili fossili più in fretta che possiamo, e soprattutto sbarazzarci della nostra ossessione per una crescita esponenziale senza fine, ridimensionando la nostra economia materiale per riportarla in sintonia con i cicli ecologici. Però potrebbe farci guadagnare abbastanza tempo per riuscire a organizzarci.
La soluzione ai cambiamenti climatici non la troveremo nell’ennesimo piano per piegare il nostro pianeta vivente alla volontà dell’uomo. Forse dobbiamo cercarla in qualcosa di molto più prosaico, un’etica di cura e risanamento, a partire dal suolo, da cui dipende la nostra esistenza. L’agricoltura rigenerativa offre un primo passo verso la soluzione della nostra crisi, ed è un passo che non necessita della scoperta di nuove e brillanti tecnologie, ma semplicemente di quel barlume dell’antica saggezza che ha permesso alla nostra specie di superare gli ultimi 200.000 anni, e che potrebbe essere la nostra unica speranza di superare i prossimi 200.000: la consapevolezza che la nostra esistenza è strettamente legata all’esistenza di tutte le altre cose viventi, dai pesci e dagli alberi alle api e ai semi, giù fino ai microorganismi che compongono il suolo da cui dipendiamo.
Estratto da “The Divide” di Jason Hickel. Per gentile concessione di ©Il Saggiatore 2018