La tribù millenaria dei Mentawai
Sumatra occidentale, Indonesia.
Nel pieno della foresta pluviale di Siberut, la più grande isola dei quattro comuni appartenenti all’arcipelago delle isole Mentawai, si trova una delle culture indigene più antiche e meglio conservate al mondo.
Bianche spiagge, onde marine degne di essere cavalcate dai surfisti più esperti e soprattutto una ricca gamma di biodiversità che ha conferito all’isola il titolo di riserva della biosfera da parte dell’Unesco.
L’arcipelago si è staccato dal resto di Sumatra circa 500mila anni fa ed è solo verso il 1930 che la popolazione indigena Mentawai è stata scoperta. La posizione remota non ha permesso l’immenso flusso di modernità e di influenze esterne che quotidianamente si stanno incrementando, soprattutto all’interno delle popolazioni locali più antiche.
I Mentawai, a detta degli antropologi più esperti, sono classificati come Proto-Malesi, il popolo australe che, lungo una serie di migrazioni tra il 2500 e il 1500 a.C., si insediarono in Malesia e in Indonesia. Esperti marittimi e nella pesca e con grandi abilità agricole, continuano tuttora a preservare orgogliosamente le loro radici. Difatti rispettano le loro pratiche tradizionali, vivono senza nessun tipo di contatto tra loro e con un fortissimo rapporto spirituale e terreno con la foresta, con un sistema di credenze che mette in connessione l’armonia con tutto ciò che hanno intorno.
Un elemento molto importante che accentua la loro connessione con la natura è il tatuaggio. L’arte dei titi (disegni) è stata ereditata dagli antenati ed è una reale autobiografia. I tatuaggi sono un simbolo importantissimo nella cultura Mentawai; i membri iniziano a tatuarsi sin da bambini e continuano per tutta la vita. Hanno molteplici significati ma nel complesso i titi tendono a riflettere: la maturità e lo stato di coscienza della persona, il clan a cui si appartiene, a indicare agli avversari di essere guerrieri forti o in altri casi, specie in quelli riguardanti gli sciamani, servono a invocare la protezione degli spiriti della natura.
Avendo questa forte connessione naturale, vivono in piccoli insediamenti sparsi lungo le coste o direttamente sui fiumi principali che si diramano lungo tutta la foresta equatoriale. Lasciano i villaggi per spostarsi in abitazioni più piccole che si trovano in aree remote, dove solo loro riescono ad orientarsi, tra sentieri improvvisati nel fango melmoso e tronchi di sago caduti qua e là.
Vivono nelle Uma o case unifamiliari. Sono il centro della vita sociale ed ogni membro del villaggio è in grado di contribuire a riunioni su questioni che possono riguardare la comunità. Le case sono delle vere e proprie palafitte di legno e bambù con tetti di palma che ospitano nella grande veranda tutta la famiglia e clan vicini, composti tra i 30 e gli 80 membri. I Mentawai, non avendo nessun tipo di confort, utilizzano tutto ciò che la natura dona loro arrivando ad un impatto zero ed eco-sostenibile. I tronchi vengono intagliati con il machete affinché possano servire come scale per accedere alle Uma o per scendere lungo le sponde del fiume, punto di ritrovo dove possono lavarsi, giocare ed utilizzare quella stessa acqua per gli usi comuni quotidiani che la vita “ordinaria” prevede.
Un altro aspetto curioso è che quando passano da età giovanile ad età adulta, i Mentawai iniziano ad ignorare la loro età. Non sono consapevoli del tempo né se ne curano perché non ne avvertono il bisogno. Quando si può affrontare la vita e tutti gli aspetti che la contraddistinguono allora si è adulti invece, quando il corpo inizia a manifestare sofferenza, malattia e debolezza è sintomo del sopraggiungere dell’anzianità. I Mentawai credono che la salute, infatti, dipenda dall’armonia che si ha con se stessi e con la natura intorno. La malattia è una perdita, totale o parziale, della propria anima causata dall’aver fatto arrabbiare uno spirito. Per quanto riguarda la morte, invece, quando uno di loro muore, imprimono sulla parete della casa le impronte dei piedi del defunto, rimarcando alla famiglia quali membri sono venuti a mancare.
Non avendo subito influenze religiose da parte del buddismo, cristianesimo o islamismo, seguono l’Animismo. Gli sciamani scacciano ed invocano gli spiriti usando esclusivamente le piante della foresta, piante dalle proprietà mistiche; devono infatti conoscere tutti i tipi di piante, tutte le loro proprietà per poter sfruttare la loro carica spirituale e medicinale in modo tale da far da tramite con l’Aldilà e con gli spiriti.
Mentre mescolano diverse piante tossiche invocano gli spiriti della foresta attraverso delle cerimonie: l’uccisione di un animale è sempre preceduta dalla richiesta del permesso allo spirito stesso, i cui teschi e penne dopo essere stati consumati vengono appesi sui tetti delle capanne affinché lo spirito rimanga a proteggere l’abitazione. Per alcune cerimonie, gli sciamani cacciano le scimmie ma non i gibboni, ritenuti sacri, preziosi e intoccabili. Gli sciamani sostengono che le loro urla indicano le aree dove dimorano gli spiriti degli altri uomini e l’urlo è sinonimo di avvertimento. Per mantenere lo stato di felicità degli spiriti, gli sciamani devono seguire una serie di codici comportamentali a cui non possono sottrarsi; ad esempio, prima di una battuta di caccia, gli uomini non possono dormire o fare il bagno e devono cibarsi solo di frutta perché altrimenti perderebbero energia e abilità.
Seguono il principio di prendere dalla foresta solo lo stretto indispensabile per sopravvivere dal momento che la foresta soddisfa tutti i loro bisogni. Nella giungla allevano maiali e galline soprattutto in prossimità del villaggio e nelle aree palustri. A seconda della stagione raccolgono anche molta frutta tra cui banane, tapioca, rambutan e i durian; specialmente quest’ultimi, presenti per gran parte dell’anno, vengono raccolti in grande quantità e spartiti tra i membri del villaggio.
La caccia degli animali è riservata agli uomini mentre la pesca alle donne, la raccolta della frutta invece richiama tutti quanti. I Mentawai si arrampicano sugli alberi che possono arrivare sino a 50 metri di altezza, intagliando delle fessure nei tronchi col machete e poi con l’aiuto di un bastone di bambù fanno cadere per terra tutti i durian per poi raccoglierli in un secondo momento.
Inoltre, loro non coltivano riso ma altre piante compatibili con il suolo fangoso che contraddistingue i dintorni delle loro abitazioni: il Sago, il loro cibo principale, è un amido estratto dal midollo della palma.
Dato che la foresta dona loro tutto ciò di cui hanno bisogno, non mangiano tanta selvaggina così quando si tratta di uccidere un animale, gli sciamani gli portano rispetto: se porti rispetto ad un animale come ad un qualsiasi essere vivente, specialmente durante un trapasso, ornandolo con fiori e foglie, lavandolo con l’acqua e accarezzandolo, l’animale non sentirà dolore, avrà una morte serena senza problemi e tutta la negatività verrà scacciata via. L’anima (ketsat), di qualsiasi essere vivente e non, è un’entità che deve essere trattata bene. Se non lo si fa, si incita l’anima a vagare liberamente intorno al corpo.
Il Lauru, ovvero la membrana che riveste l’intestino del pollo, ha per loro potenti significati divinatori: tramite le diramazioni delle venature si può scorgere il futuro. Dal cambiamento climatico imminente al periodo giusto per andare a caccia o addirittura le condizioni delle “strade” d’accesso che vanno da un’abitazione all’altra.
Un altro elemento che ricavano dalla natura sono i vestiti tradizionali come i sarong per le donne (dalle foglie di banano) e i baiko per gli uomini (dall’albero del baiko). Insieme alle collane, i braccialetti colorati e i fiori tropicali tra i capelli, sono chiari elementi contraddistintivi della cultura Mentawai.
Nonostante gli innumerevoli tentativi da parte del governo, soprattutto negli ultimi decenni, di introdurli all’interno della società e quindi, in villaggi controllati e moderni, strappandoli dalla loro vita indigena, loro non perdono le speranze. La tradizione conta più della legge. Anche se i clan sono diminuiti, continuano a vivere all’interno della giungla, in aree in cui solo loro possono e riescono ad addentrarsi e ad orientarsi. Un luogo in cui la forza mentale e la natura circostante convivono armoniosamente.
Nonostante la civiltà industrializzata sia per loro il più grande problema da affrontare nel tentativo di preservare le loro usanze, confidano nella futura generazione affinché i bambini continuino ad apprendere la vita indigena, la vita che solo la giungla sa donare loro. Una vita “primitiva” in cui possono continuare a rimanere se stessi, rispettando la natura a pari merito dell’uomo, utilizzando solo lo stretto indispensabile e riconoscendo che tutto questo sta svanendo.
È importante preservare il più possibile una cultura tuttora radicata anziché contaminarla, come solo la modernità sta riuscendo a fare con tutte le tribù primitive nel mondo.
Testi a cura di Anna Elisa Sida
Foto di Matteo Maimone