La sottile linea black
E’ un periodo estremamente interessante per chi si interessa di black music: il panorama musicale è davvero molto ricco e sfaccettato, prova ne siano gli ultimi lavori di Kendrick Lamar, Kamasi Washington, Robert Glasper ma anche di Beyoncé, Drake, Kanye West ed Erykah Badu: tutti impegnati a proseguire quanto tracciato nella black music dai maestri del genere, dagli originatori del suono, quello grezzo, spesso in quattro quarti, in grado di scaldare il cuore a suon di rullate, vocalizzi, casse profonde.
La musica black, da intendersi nelle sue innumerevoli forme quali gospel, funk, jazz, blues, soul, disco, techno ed hip hop, si sviluppa attorno ad un concetto di continuità, ritorno e citazione che ha pochi eguali nel panorama musicale moderno.
Continuità black
Ogni faccia (genere) appartiene alla stessa medaglia, ogni disco in qualche modo sembra incasellarsi in un grande affresco che ci racconta la storia di un popolo (quello afroamericano) che affascina anche grazie alle forme con cui è raccontata. Lo storytelling hip hop è il continuum dello spoken word gospel, il beat martellante della techno è l’astrazione e spersonalizzazione della disco, le ritmiche del funk con i loro giri di basso profondi sono jazz che si fa popolare e ballabile, i lamenti dei fiati nel jazz sono le voci dei campi di cotone del sud negli stati schiavisti, il soul ne è allo stesso tempo l’espressione più spirituale.
Ogni nota è in continuità con la precedente, ogni disco muove da un altro lungo una sottile, ma visibilissima e ricostruibile, linea rossa (black) che tiene assieme tutto quanto e che se percorsa può portare dal funk orchestrale della Walk on By di Isaac Hayes alla (magnifica) 6 Inch di Beyoncé e The Weeknd che non ne è una cover ma una dedica (contenuta nel di lei «Lemonade»), dalle batterie di Do it dei B.T. Express su ad Harlem, al jazz elettronico di Flying Lotus giù a Los Angeles che campiona, risuona, ricombina. Su questa scia puoi trovarti a Trento e sentire Robert Glasper risuonare J-Dilla come lo ha interpretato Madlib per il disco New Amerikah di Erikah Badu, sentire la stessa Erikah che duetta con Drake concependo un EP intero attorno alla canzone più commerciale del rapper di Toronto (Hotline Bling), ma puoi anche notare un telefono che squilla in “Calls” di Jill Scott e un Gill Scott Heron che compare campionato tra le note di Jamie XX, che è un inglese bianchissimo ma evidentemente black-colto, mentre lo suona a New York, tra gente che afferra il concetto ed altra ignara di tutto, ma che sta bene comunque, sulle note della musica “con strutto”, con cuore.
“Calls” – Robert Glasper feat. Jill Scott
Affermazione ed espressione
In mezzo ci finiscono spesso riflessioni socio politiche e momenti di assoluta autocelebrazione, si scontrano i manierismi di Kanye West con le ricostruzioni storico sociali di Kendrick Lamar: conclusioni diverse che rispondo però allo stesso bisogno primigenio di affermazione ed espressione insito da sempre nel popolo schiavo per antonomasia: perché “Legend” di Drake e “The Blacker the Berry” di Kendrick Lamar sono chiaramente due modi (opposti nei modi e nello stile) di dire la stessa cosa.
D’altra parte era quello che cercava di dirci già qualche anno fa, il compianto scrittore David Foster Wallace nel suo ignoratissimo “Il rap spiegato ai bianchi”: «la cazzuta genialità del rap sta in questo processo circolare, un loop quasi digitale: ha trasformato l’orrore del suo mondo, tradito dalla storia, bombardato da segnali contraddittori, violento nella sua impotenza, isolato, claustrofobico e privo di vie d’uscita, ha trasformato questa forma di orrore in una specifica forma d’arte d’avanguardia: Platone campionato mentre sta seduto sulla tazza del cesso.» Ed il bello di oggi, del 2016, è che gli artisti stessi lo hanno capito e lo gridano a chi è capace di ascoltare: siamo maturi, siamo questo, siamo flusso.
Ray Allen (o meglio Spike Lee) in He got game direbbe “è poesia in movimento”, è un evolversi citando, costruendo su ciò che è venuto prima per muoversi allo step successivo. Robert Glasper compone la OST del biography su Miles Davis, Kendrick recupera un dialogo con Tupac, Kanye West cita Nina Simone ed i Fugees appropriandosi di note già capolavoro per aggiungerci qualcosa e portarle nella stratosfera. È un vortice che tocca generi, li espande, li centrifuga autoalimentandosi ripetendosi solo se è necessario per andare avanti. Ne sono la prova “Meditations on Afrocentrism” e “Perceptions” di Romare, dj che ottiene la sua house con voci campionate da soli dischi black per un risultato di estrema modernità citazionista basata sul rispetto per i grandi del genere.
Persistere nel tempo
Non puoi ascoltare la musica nera senza accorgerti che stai sentendo solo un pezzo della storia, senza avvertire la mistica di un quadro più grande e completo, non puoi non tentare di ricostruirlo e, per definizione, non puoi limitarti a conoscerne solo un genere, come vorrebbero certi fondamentalisti della musica. È Soul Power, per citare Common, lo senti nell’aria attraverso le note.
Credo che la black music rappresenti il simulacro della persistenza del tempo, che sia un ricordo continuo, un baluardo di memoria che non a caso ha contribuito da sola a tenere vivi artisti, suoni, dischi e generi che altrimenti sarebbero morti con lo scorrere delle epoche. Basti pensare all’invenzione del campionamento portata dal non-genere hip hop che è poi costruito a partire da altri generi senza i quali non esisterebbe per definizione.
In epoche di continuo presente, la black music è il ricordo continuo di ciò che saremo.
Future Shock, parola di Herbie Hancock.