La responsabilità di essere sui social
Se c’è un report in grado di tracciare con grande lucidità e precisione numeri e tendenze del mercato tecnologico e digitale a livello globale, quello è il Technology Trends redatto da Kleiner Perkins Caufield Byers. Da qui si apprende che le persone controllano il proprio telefono cellulare all’incirca 150 volte al giorno; un gesto che, se non lo riconoscessimo come familiare, giudicheremmo probabilmente ossessivo-compulsivo. Per non parlare delle volte in cui siamo convinti, sbagliando, di sentire vibrare il telefono in tasca. Le statistiche dicono che succede a 9 persone su 10 e che dipende dall’ansia: siamo talmente abituati a ricevere notifiche in ogni momento della giornata, che in qualche modo “anticipiamo” questo momento avvertendo vibrazioni anche quando non ci sono.
Il fatto è che stiamo diventando dipendenti dallo smartphone senza neanche accorgercene, eppure tutti sapremmo riconoscere il momento esatto in cui tutto ha avuto inizio: Facebook, capostipite e tuttora leader di un’ampia schiera di social network, è stato fondato nel 2004, mentre il primo iPhone è nato nel 2007. Da allora smartphone e social network sono diventati un binomio indivisibile con cui interagiamo 24 ore su 24.
In America e in Corea del Sud esistono già centri di riabilitazione in cui i giovani che abusano dei social possono andare a disintossicarsi e a curare i disordini psichiatrici dovuti all’iperconnettività: numerosi studi sono concordi nel dire che Facebook causa ansia e depressione, Twitter ci rende insensibili di fronte alle tragedie e ci impedisce di elaborarle in modo sano e Instagram, il più gettonato dalle nuove generazioni, peggiora la percezione che abbiamo del nostro corpo. Nonostante questo, a fronte dei benefici per la salute con cui verremmo ricompensati, un recente articolo pubblicato sull’autorevole rivista scientifica Plos One afferma che l’utente medio di Facebook vorrebbe in cambio più di 1000 dollari solo per disattivare per un anno il proprio account. Un risultato che ridimensiona di gran lunga gli effetti a medio termine di una campagna globale come #deletefacebook. Quando con lo scandalo di Cambridge Analytica scoprimmo che dalle parti della Silicon Valley usavano i nostri dati personali raccolti attraverso i social per operazioni di marketing, politico e commerciale, manipolando senza scrupoli la psicologia di noi utenti, in moltissimi si dissero indignati, solo alcuni agirono di conseguenza. Tra questi Daniele Luttazzi che sui social, da allora, non si è più affacciato. Nel suo ultimo post sul blog, spiegando le ragioni che lo avrebbero visto offline di lì a poco, ne faceva una faccenda esclusivamente etica e smentiva così le argomentazioni di chi avrebbe potuto non condividere una scelta così radicale:
Primo luogo comune
Non sono i social a essere tossici, è l’uso e abuso che se ne fa. SBAGLIATO. Adesso si sa che i social network sono SEMPRE tossici. Ogni tua attività sui social perfeziona il loro sistema di profilazione, marketing mirato, controllo psicologico e modificazione comportamentale. La tua attività sui social contribuisce alla tossicità contro di te e contro gli altri.
Secondo luogo comune
I social sono il futuro che avanza e non ci si può fare niente. SBAGLIATO. La vernice al piombo fu vietata quando si scoprì la sua tossicità. I social sono un modo tossico di fare web. Poiché tutto origina dalla loro raccolta dati, questa va vietata. Trovino un altro modo di fare affari: l’attuale è pericoloso. Io intanto comincio cancellandomi dai social e invitando tutti a farlo.
Terzo luogo comune
I social sono uno strumento valido contro il monopolio dell’informazione. SBAGLIATO. I social manipolano l’informazione in due modi: 1) con gli algoritmi che ti mostrano ciò che corrisponde alle tue preferenze (bolla informativa), 2) intervenendo nella propaganda partitica mirata, occulta, sponsorizzata, deviata da chi ha i soldi e gli interessi per farlo, come dimostrato dal caso Cambridge Analytica (Mercier, Bannon, Trump, Brexit) e dal caso hacker russi (Trump).
Al di là di come la pensiate, è finito il tempo in cui possiamo dirci ingenui rispetto ai social network. In dieci anni nei loro confronti abbiamo sperimentato una gamma di stati d’animo, dall’euforia alla diffidenza, dal conforto direttamente all’odio in diversi momenti della nostra vita. Ci hanno reso popolari, poi vittime, talvolta invisibili. Attraverso di loro ci siamo innamorati, abbiamo annientato le distanze, abbiamo vinto le elezioni. Abbiamo addirittura scoperto che i troll non risiedono per forza in Scandinavia. Infine ci siamo accorti, ma continuiamo a dimenticarlo, che le conseguenze di ciò che scriviamo e condividiamo lì sopra si riflettono sulla vita reale.
L’anno scorso è toccato ai comitati dei parchi nazionali statunitensi ricordarcelo quando hanno chiesto a influencer e utenti online di non geotaggare i luoghi su Instagram. Per geotag si intende l’aggiunta del nome del posto in cui ci si trova, con tanto di coordinate geografiche, al proprio post sui social. L’eccesso di questa pratica ha fatto sì che luoghi naturali, un tempo poco conosciuti, diventassero di facile accesso a tutti, causando l’arrivo del turismo di massa con tutti i problemi che ciò comporta alla natura. La discussione si è spostata anche sugli stessi social media.
Alcuni fotografi di viaggio e travel blogger hanno lanciato l’hashtag #nogeotag per ricordare ai turisti di non aggiungere le coordinate agli status. Questo non per eliminare del tutto le fotografie e chi le fa, dato che il turismo è una risorsa importante in questi luoghi, ma per promuovere un atteggiamento responsabile, un invito a rispettare l’ambiente dal vivo e online, a godere della natura per davvero e a non ridurla a uno scatto da postare. Un messaggio etico che diventa paradossale quando a farsene portavoce, quasi appellandosi alla nostra coscienza, è proprio uno dei colossi della telefonia. Stiamo parlando di Huawei che lo scorso agosto ha diffuso uno spot contro la condivisione, invitandoci a vivere il momento, a riflettere sulle conseguenze di ogni nostro gesto in una realtà, quella della velocità e del traffico dati, che la multinazionale cinese ha tutto l’interesse a far proliferare e che, evidentemente, ci è scappata di mano. Quando si dice che i social siano in grado di distruggere le nostre vite, infatti, non è solo una metafora. Negli ultimi sei anni, oltre 250 persone hanno perso la vita per essersi scattate foto in luoghi o situazione rischiose. Lo denuncia uno studio realizzato in India, paese dove il fenomeno è purtroppo molto diffuso, tanto che nel 2016 la città di Mumbai ha creato 16 “no selfie zone” dopo una serie di incidenti mortali. Da parte sua, la Russia tre anni fa ha lanciato una campagna educativa all’insegna dello slogan “Anche un milione di like sui social non vale la vostra vita”, con immagini delle cattive idee per un selfie.
Non esiste un manuale che ci dica cosa fare dei nostri account, come restare fuori dai guai e non procurarne ad altri, ma forse per iniziare a invertire la rotta basterebbe sforzarci di applicare regole e valori che seguiamo offline e non accettare passivamente il contrario.
Un tempo, avremmo giudicato invadente – se non addirittura illegale – il fatto che il nostro telefono cellulare potesse rivelare in tempo reale la posizione di amici e conoscenti situati nel raggio di dieci miglia. Oggi lo diamo per scontato. Così come l’automatismo che ci porta a navigare sui social la mattina appena svegli e prima di andare a letto a prescindere da chi ci dorme accanto. O a inviare un messaggio al nostro vicino di scrivania piuttosto che girarci e parlargli faccia a faccia. La qualità delle relazioni sociali è in picchiata da almeno un decennio e tentiamo di rimediare con la tecnologia, moltiplicando le possibilità di connessione. Ma falliamo perché le interazioni sono solo simulate. Non prestiamo mai veramente attenzione alla conversazione, nel frattempo rispondiamo alle email, controlliamo i feed e aggiorniamo lo stato di Facebook. Internet ha moltiplicato gli stimoli a cui siamo sottoposti e quindi le distrazioni possibili. Molto più che in passato siamo continuamente stimolati a leggere, guardare, ascoltare e comprare, oltre che ovviamente a condividere noi stessi inserendoci nel flusso di stimoli e contenuti che chiedono l’attenzione di qualcuno. Questo perché il rumore di fondo – Twitter, WhatsApp, Facebook, etc – ci distrae e ci fa sentire al centro del mondo. Pura megalomania: non siamo mai stati così impotenti.
La buona notizia è che possiamo cambiare le cose, è tutto nelle nostre mani.
a cura di Mena Toscano
Giornalista underground dal 1999