La realtà è una credenza
Anzitutto: come sappiamo della realtà? Lo sappiamo attraverso i nostri sensi. Vista e udito per primi, ma anche tatto, gusto e olfatto. Vediamo il tavolo, sentiamo il rumore che fa quando il vicino pirla lo sposta alle tre del mattino, otteniamo informazioni sulla sua consistenza quando ci pestiamo il minolo del piede contro (lo so, pensavi si chiamasse “mignolo”, e invece no, si chiama “minolo” oppure “mellino”). Se col vicino facciamo sesso orale ne sentiamo il suo gusto in bocca e se il vicino è morto da qualche giorno l’olfatto ce ne dà notizia. Il nostro cervello riceve miliardi di informazioni in questo modo ogni giorno. Ma quando tutto ciò arriva al cervello, non c’è scritto sopra “vicino pirla”, “vicino superdotato” e nemmeno “vicino morto”, perché questi segnali arrivano al cervello nella forma di segnali elettrochimici, trasmessi da cellule neuronali che chiamiamo nervi. È solo nel nostro cervello (per la precisione nella corteccia) che queste piccole scosse elettrochimiche magicamente diventano immagini e scenari e significati. Nel mio cervello, nel tuo cervello, nel singolo cervello di chiunque le riceva.
Dunque, la realtà prende forma solo attraverso i sensi e l’attività di uno specifico cervello per volta. Prima del cervello, è solo una scarica elettrochimica. E prima dei sensi? Semplicemente, non lo sappiamo, e non possiamo saperlo. Diamo per scontato che il tavolo e il vicino di casa esistano anche prima e dopo che li vediamo, sentiamo, tocchiamo, gustiamo, annusiamo, e dunque li rappresentiamo come immagini nella nostra mente, ma di fatto non possiamo averne alcuna certezza. Ciò che chiamiamo realtà è solo una rappresentazione che costruiamo nella nostra mente.
UNA REALTÀ IN CUI VIVERE
Ovviamente, se io mi costruisco una realtà in cui il mio vicino è anche il mio servitore e lui non è d’accordo con questa mia visione della realtà, sorgeranno delle difficoltà. È quel che accade in ogni tipo di scontro e persino malinteso, dalla gelosia (nella mia realtà questa persona va a letto solo con me e non anche con te) a un incidente stradale (nella mia realtà non era necessario frenare e invece ora siamo tutti e due fermi con le macchine rotte) a una rapina (nella mia realtà io posseggo quel televisore al plasma che però al momento sta nel tuo salotto) nei mutamenti sociali (nella mia realtà il colore della pelle non vieta di studiare o votare) fino alle guerre tra nazioni (nella mia realtà il petrolio che sta sotto la tua capanna deve venire estratto per diventare carburante per la mia vettura). Per evitare almeno una parte di queste difficoltà, gli esseri umani hanno creato una specie di accordo che chiamano spesso “realtà oggettiva”, cui fare riferimento in gruppi piccoli o grandi, in modo da non dover costantemente ridiscutere tutto da cima a fondo e fondamentalmente evitare di ammazzarsi a vicenda quotidianamente – anche se poi ci riescono comunque piuttosto bene. Questa realtà oggettiva è ovviamente composta di concetti mentali che rappresentano oggetti fisici, come appunto “sasso”, “fiume”, “frutto”, ma anche concetti mentali, come “proprietà” o “confine”, e persino concetti valoriali, come ad esempio “diritto fondamentale” o “bene indisponibile”. Al limite estremo, il linguaggio ha creato concetti che vengono, per definizione, considerati esterni alle nostre menti, come “dio”, o più di recente, “regole matematiche”.
Tutto ciò è stato messo in piedi da noi per il semplice motivo di riuscire a collaborare in maniera più efficiente. Ma, che ci piaccia o meno ricordarlo, tutto ciò resta solo il frutto delle nostre menti: è solo una rappresentazione di quel che percepiamo ed esiste soltanto dentro di esse. 2+2 continua a fare 4 soltanto finché una mente lo pensa. Senza una mente che lo pensi, non c’è più nessun 2, nessun più e nessun 4. Di oggettivo, inteso come esterno alle nostre menti, non c’è proprio nulla di cui noi si possa avere alcun tipo di cognizione o esperienza, perché ogni tipo di cognizione ed esperienza sono, per definizione, accadimenti che avvengono nella nostra mente.
REALTÀ CONSOLATORIA
Eppure, da sempre la maggior parte degli esseri umani rifiuta questo stato di cose. Quasi tutti vogliono che il tavolo esista per i fatti suoi, quasi nessuno accetta che il tavolo esiste solo perché lui stesso ne crea un modello nella sua mente, e che di esso può sapere soltanto quel che i suoi sensi e la sua mente collaborano a rappresentare. Perché? Ovviamente, perché quando ci pesti contro quel che chiami mignolo ma si chiama minolo o mellino, desideri con tutto te stesso poter dare la colpa al tavolo per essersi messo lì in mezzo ai piedi invece che a te stesso per esserci andato a sbattere. Figurarsi se sei disposto ad ammettere che anche il tavolo stesso sta lì perché ce lo hai messo tu. Ecco allora che astrarre la realtà da se stessi, allontanare la consapevolezza che siamo noi a raccontarcela così come poi la viviamo, serve a consolarci per quanto di essa non ci piaccia affatto. E assolve alla necessità avere qualcun altro cui dare la colpa: che sia il vicino, il ladro, il coniuge infedele, il terrorista, quel politico corrotto o ignorante, quella nazione di fanatici, un dio spietato, il fato avverso. Se sento male, la colpa deve essere di qualcun altro. Ma anche se mi ammalo, anche se le cose vanno male, anche se il sistema non funziona: se dovrò morire prima o dopo. Non sono io a deciderlo, non sono io ad averne la responsabilità, è stato qualcun altro per forza: esseri umani, gruppi, nazioni, divinità, leggi a me esterne. Questo processo conduce a mettere la realtà da qualche parte là fuori dalla nostra portata. Ma se di realtà ce n’è davvero una là fuori, noi ne sappiamo solo quel che costruiamo da soli, nelle nostre menti. E su questa rappresentazione il nostro potere è immenso. Insomma: siamo stati noi.
CHI SEI, IN REALTÀ?
Una delle funzioni essenziali della rappresentazione di realtà è proprio definire chi siamo. Anzitutto ai nostri stessi occhi, e poi a quelli degli altri. Senza una realtà di riferimento, infatti, è impossibile tratteggiare un’identità. Puoi essere coraggioso, o fifone, solo se hai qualcosa da temere e una misurazione di quanto questo timore sia da considerarsi “fondato” o “infondato”. In una realtà in cui tutti masticano scorpioni a colazione, aver paura di un ragnetto è considerabile “fifone” a meno che quel ragnetto non sia una vedova nera. E questo vale per ogni altro tratto di quella che poi definiamo personalità, o identità. Possiamo costruire la nostra identità soltanto calandola in una rappresentazione percettiva che chiamiamo realtà, che abbia oggetti, abitudini, regole e misurazioni stabilite. Non per caso, bruschi mutamenti del piano che chiamiamo “realtà” provocano altrettanto inattesi mutamenti delle personalità: si pensi a una guerra civile, a un terremoto disastroso, a un naufragio, a un cataclisma e a come i sopravvissuti costruiscano regole sociali e comportamenti individuali anche del tutto diversi da quelli precedenti al “mutamento”. Per ragioni di spazio non posso qui scendere troppo nei dettagli di come ciò avvenga ma, in breve, anche “chi siamo” è cosa che decidiamo, e lo decidiamo proprio sfruttando quella realtà che abbiamo costruito mentalmente in prima istanza.
SAI ESSERE IL TUO DIO?
Nella realtà condivisa, quella che molti chiamano “realtà oggettiva”, su questo pianeta esistono forme viventi di vario tipo. I vegetali ad esempio, mostrano attività biologiche tali da venire considerati viventi, mentre i minerali no. Ma solo gli animali presentano tracce in misura molto variabile di un sistema nervoso, organi di ricezione sensoriale, cellule neuronali in grado di farne elaborazione, un organo preposto a questa elaborazione complessa: il cervello. Nessuno degli altri animali oltre all’essere umano mostra tracce evidenti di un processo ben preciso, che chiamiamo consapevolezza del sé, o autocoscienza. Gatti, cani, cavalli, pesci, mucche e scimmie hanno chiaramente una percezione degli eventi circostanti; il loro cervello percepisce, identifica ed elabora strategie per reagire ai fenomeni. Ma nessuno di essi sa di esistere come individuo, nessuno di essi mostra segni di riconoscimento del sé. Ovviamente, molti animali evidenziano dei tratti di personalità specifici. Un gatto è più coccolone, un altro più aggressivo, un altro molto prudente, un altro molto coraggioso, ma non sanno di esserlo; siamo noi a attribuire queste caratteristiche, loro le vivono soltanto – più precisamente, le subiscono. Nessuna leonessa si domanda “ma io che tipo di leonessa sono?” oppure si pone il problema “posso migliorare come leonessa?” e men che meno “cosa penseranno di me le altre leonesse?” Noi esseri umani invece lo facciamo, e questo è il motivo per cui abbiamo bisogno di un nome per identificarci, il motivo per cui creiamo una identità.
Pensare che la realtà che percepiamo esista come fenomeno a sé stante, là fuori, equivale a considerarsi schiavi di essa. Pensare che esistano regole che noi possiamo al massimo scoprire, ma che esistono senza di noi, equivale a poter soltanto ubbidire ad esse. Se c’è qualcosa che l’autocoscienza regala agli esseri umani è proprio la capacità di decidere le regole delle loro esistenze. Di decidere la realtà dentro cui desiderino vivere. Di decidere le loro identità e la loro realtà. La scelta di diventare un atto della propria volontà. In sostanza, essere il proprio dio. Questo però implica assumersi la responsabilità di tutto quanto: del mondo in cui viviamo, di chi siamo dentro di esso. Una scelta che terrorizza la maggior parte delle persone: non tutti hanno la stoffa per essere il proprio dio.