La realtà del carcere
Cercare di tradurre in parole l’immagine del carcere in Italia oggi è impossibile anche per chi lo vede e lo vive dall’interno, tali e tante sono le sfaccettature di un’istituzione sorpassata dalla storia e dal buon senso nella sua forma attuale.
La credibilità in primis di chi da dentro lo descrive è minata da pregiudizi radicati nella comune percezione, che lo svantaggio nei confronti della verità risulta difficilmente colmabile. Il rischio va oltre e riguarda qualunque voce osi alzarsi tra il gregge dei “servi disobbedienti alle leggi del branco”, che tradotto in altre parole, significa isolamento e trasferimenti, tuttavia, a volte gli anelli più deboli diventano importanti, perché sono loro quelli che spezzano la catena.
Vi sono inconfutabili dati oggettivi dai quali emerge una realtà invisibile ai più, poiché i carceri, sono aree extraterritoriali dove “ficcare il naso” non è facile per nessuno e la voce di chi ci vive (guardie e ladri) è poco più di un raggio nell’oceano mediatico che circonda tutti noi.
Ma torniamo ai dati oggettivi, spazio vitale, la quasi totalità delle celle, misura 4mx2m più un bagno con tazza alla turca che funge anche da cucina, di 1mx4,50m circa, tale cella è chiamata in gergo “cubicolo” ed in origine era stata progettata per ospitare un solo detenuto, che con il tempo e le contingenze sono diventati due. La situazione attuale vede ospitati normalmente nei cubicoli 6 detenuti (i più fortunati sono in 5 ma sono pochi). Se confrontiamo il dato con lo spazio vitale dei maiali, che per legge è di 2,5 mq (inderogabile e rispettato dagli allevatori, pena sanzioni e chiusura dell’allevamento), possiamo cominciare a capire quanto possa essere rieducativo ed in linea con i dettami della costituzione, passare 20 ore su 24 in spazi del genere. Per capirci, se due detenuti sono in piedi, gli altri 4 devono stare coricati in branda, significa che 6 persone, più 6 brande, 6 bilancette (gli armadietti dove tenere tutto quanto è possibile possedere in carcere) più un tavolo, 6 sgabelli, 24/12 paia di scarpe e ciabatte, piatti, posate in plastica, libri e quant’altro, deve essere contenuto in 8mq. Le brande sono sovrapposte fino al 3° ordine a circa 1,50 dal soffitto e dal neon che viene periodicamente acceso dagli agenti nelle ore notturne, per effettuare la “conta”. Credo non sia contemplato dal regolamento il 3° ordine di brande, anche per l’oggettiva pericolosità e le inevitabili difficoltà che ad esempio un ammalato ha (in carcere ce ne sono tantissimi) per accedervi, ma l’emergenza diventata normalità, giustifica lo straordinario rendendolo norma.
Spesso i detenuti dormono per terra, su materassi di gommapiuma di fronte ai quali gli acari domestici soccomberebbero come una razza in estinzione per incompatibilità ambientale.
Se applichiamo un’economia di scala, va da se che cucine strutturate per preparare 230 pasti, ne devono servire ogni giorno 560, non possono essere che in costante debito d’ossigeno sotto tutti i punti di vista. Ciò che i detenuti mangiano in carcere, ha due canali di distribuzione: il carrello e il sopravvitto, il primo è ciò che viene distribuito a tutti i detenuti del carcere e viene preparato dai lavoranti della cucina, il secondo è tutto ciò che viene comprato da coloro che hanno disponibilità di denaro e cucinato in cella su due fornelli da campeggio (di fianco alla turca). L’azienda che si aggiudica l’appalto della fornitura del vitto, ha diritto a gestire il sopravvitto, per vincere l’appalto del vitto è necessario garantire un certo numero di calorie giornaliere ad ogni recluso, al minimo del costo.
Il sopravvitto, invece, è composto da un elenco di generi a prezzo controllato ed in teoria corrispondente alla media del mercato locale, che i detenuti acquistano con i propri fondi (denaro che loro non maneggiano ma che viene segnato sul “libretto”), il denaro dai libretti viene scaricato al momento della consegna della “spesa”, cioè, la spesa si paga in anticipo. Il sistema corrisponde ad un’equazione: più il vitto sarà scadente, maggiore sarà quello che verrà acquistato da chi può permettersi di fare la spesa.
Poiché, come specificato in precedenza, il denaro viene scaricato con largo anticipo dai libretti dei detenuti, l’impresa appaltatrice non ha rischio di invenduti ne di giacenza, oltre che poter contare su denaro contante e garantito, il che in fase di trattativa d’acquisto è il sogno di ogni commerciante. Il rischio d’impresa è praticamente azzerato.
Tutte le mansioni necessarie a far funzionare un carcere, escluse quelle amministrative ed ovviamente i compiti di custodia, vengono espletate da detenuti lavoranti, che ricevono per questo una mercede, seppur decisamente al di sotto di quanto dovrebbe essere corrisposto ad un eventuale impresa esterna. Questo da la possibilità, ai detenuti di guadagnare qualche soldino ed all’amministrazione penitenziaria di risparmiarne altrettanti. Le figure “professionali” vanno dallo scopino, che si occupa della pulizia dei corridoi e delle aree comuni, allo spesino (colui che smista e distribuisce la spesa), lo scrivano, che spesso coincide col bibliotecario, e aiuta gli analfabeti e i detenuti stranieri a scrivere, poi c’è l’importantissimo servizio m.o.f. che si occupa dell’ordinaria, e spesso straordinaria, manutenzione della struttura carceraria.
Ovviamente i detenuti lavoranti sono una strettissima minoranza, sulla quale i criteri di scelta non mi sono ben chiari, ma si possono facilmente immaginare. A tutti gli altri, nella maggior parte dei casi, non è permesso fare nient’altro che aspettare di essere messi fuori.
Un sistema deleterio per il tempo che si passa in galera e totalmente destabilizzante una volta tornati in libertà. TUTTA QUESTA SITUAZIONE NON GIOVA OVVIAMENTE NEMMENO AL PERSONALE DI CUSTODIA, CHE ESSENDO PERENNEMENTE SOTTO ORGANICO E’ SPESSO COSTRETTO A TURNI PESANTI ED A GESTIRE SITUAZIONI D’EMERGENZA IN FORMA ROUTINALE. C’E’ PIU’ DI UN NESSO TRA LE CARENZE D’ORGANICO E LA GENEROSITA’ CON CUI IN CARCERE VENGONO DISPENSATE BENZODIZEPINE E PSICOFARMACI VARI, PERCHE’ OVVIAMENTE PER VIGILARE SU UOMINI SOTTO SEDAZIONE PERENNE SERVE MENO PERSONALE CHE PER CONTROLLARE.
Coloro che tentano il suicidio, per esempio vengono sistemati in celle da 4 o da 5 persone, nella sezione di isolamento, dove l’aria nel cortile viene divisa per il numero di celle ed è ridotta a 15 minuti al giorno, anche se nessuno di loro chiede mai di beneficiarne perché rimangono sempre in branda, guardati a vista anche se sedati da un agente seduto davanti al cancello della cella. Chi pensasse di fare lo sciopero della fame, (la sola forma di protesta civile che un detenuto può fare), viene invece pesato ogni mattina e quando, nel giro di 8/10 giorni, cade a terra, viene messo in t.s.o (trattamento sanitario obbligatorio), sottoposto ad alimentazione forzata e quasi sempre, mandato in manicomio.
Non credo esistano precedenti storici ove le guardie ed i ladri, siano mai stati solidali come in quest’epoca, poiché spesso, provenendo dal medesimo “materiale umano”, gli uni capiscono gli altri.
Una delle opere di misericordia corporale insegnataci dalla dottrina cristiana, predica di visitare i detenuti, eppure, nello stesso cattolicissimo paese dove vive anche sua santità il papa, osservare questo precetto è più complicato di quanto si possa pensare e totalmente deciso, nel caso dei detenuti in attesa di giudizio, cioè la maggior parte, dalla magistratura competente, che in materia di colloqui è piuttosto rigida ed assolutamente non allineata con quanto succede nel resto d’Europa. Le visite ai detenuti sono consentite solo ai familiari stretti, ovvero coloro che possono documentare il grado di prima parentela; nel caso di convivenze di fatto è praticamente impedito al compagno o alla compagna di recarsi in visita al proprio congiunto in carcere, se non come “terza persona”, il che richiede come minimo un paio di mesi di attesa per un colloquio “straordinario” ed ogni volta, la trafila si ripete.
Ai detenuti è permesso ricevere, tramite colloquio, 20 kg in 4 volte, di pacco mensile tra vestiario e generi alimentari, il tutto controllato e regolato secondo dettami ben precisi, che prevedono solo alimenti confezionati sottovuoto e di marca. Per il vestiario le regole sono tutto sommato sensate, le uniche cose che non possono entrare sono le cinture ed a volte le stringhe delle scarpe (entrambe potrebbero servire a suicidarsi), ma per esempio, nei cambi di stagione invernali, i 20kg se ne vanno in fretta, basti pensare a quanto pesa un giubbotto o un paio di scarpe. È invece complicatissimo e quasi impossibile poter avere delle pentole e delle padelle, cosicché si tramandano da anni e da generazioni quelle che, non si sa come, sono entrate in occasione di qualche concessione speciale e le cui condizioni le rendono vergognose anche per i cani randagi.
Molti detenuti stranieri, che sono il 70%, lavano da se le poche cose che possiedono (nello stesso lavandino dove si cucina e ci si rade) stendendole poi ad asciugare nei medesimi 8 mq dove vivono gli altri 5 compagni di cella, nella maggior parte dei casi, fumatori incalliti. Se soltanto ad elencare le incongruenze ed i paradossi di questo pianeta circondato da muri, che a volte sembrano costruiti per tenere fuori il buon senso, servono fiumi di parole anche per una descrizione sommaria e parziale, immaginiamoci cosa significherebbe mettere mano a questo sistema malato ed a chi potrebbe spettare il compito e la conseguente responsabilità di inevitabili tentativi fallaci, visto che soprattutto la responsabilità è frammentata in tanti di quei meandri che ci si perderebbe come nel labirinto di Minosse. Eppur non mancano precedenti di menti illuminate e capaci, penso a Pagano, alla direttrice Flavia Pignanelli (ed al suo delatore Donato Pighetti, che ne ha interrotto e vanificato l’opera), al direttore Porcino di Bergamo, alla direttrice del carcere di Sulmona, morta suicida all’interno dell’istituto. Molti di loro sono ancora in attività, ma spesso impotenti, di fronte a questo “cane sterile” in cui tutti rimangono a bocca asciutta, come lo definì l’ex direttore di Rebibbia, sia coloro che cercano la redenzione, che tutti gli altri, già, perché chi finisce in carcere, quasi sempre, prima o poi ne esce e torna in quella stessa società che l’ha punito e che non ha reimparato ad amare.
Forse è tutto voluto e non si ammazzano mai tutti i topi, perché così si riproducono o forse, molto più semplicemente, funziona tutto come un disordine organizzato, nel quale il facile diventa difficile attraverso l’inutile e questo “cassonetto per rifiuti sociali” che oggi è il carcere, non interessa a nessuno… almeno finché il coperchio rimane ben chiuso.