La polizia americana ha sgomberato con la forza i Sioux che resistevano contro l’oleodotto
Dieci nativi arrestati per aver “insultato le forze dell’ordine” e una ragazza ferita in modo grave. Questo il bilancio della giornata di ieri, quando le forze di polizia hanno sgomberato il campo di resistenza dei Sioux, occupato da mesi dagli indigeni americani che intendevano impedire fisicamente la costruzione del Dakota Access Pipeline, un oleodotto di 1700 chilometri che deve passare tra le terre sacre degli idiani Sioux e sotto al fiume che è la loro unica fonte di acqua potabile, il Missouri.
L’opera era stata congelata durante la presidenza Obama ed erano allo studio nuovi tracciati possibili per ridurre i rischi ambientali ed evitare di passare sui territori dei nativi. Donald Trump appena eletto ha però scelto di andare allo scontro con i nativi, come fosse in una riedizione fuori tempo massimo di uno spaghetti western. Le forze governative avevano mandato un ultimatum agli indigeni ribelli, che da mesi resistevano in ogni modo, anche grazie alla solidarietà di altre 30 tribù di nativi americani giunte anche dal Canada e di molti attivisti statunitensi.
L’ultimatum è scaduto ieri alle ore 9 locali, le donne e i bambini avevano abbandonato l’area, mentre gli uomini hanno affrontato le forze di polizia. Quest’ultime non hanno esitato a ricorrere alle maniere spicce, come dimostrano le immagini diffuse dalla stampa, forti del mandato conferitogli: liberare il campo ad ogni costo.
Il governatore del North Dakota, Doug Burgum, Repubblicano, è colui che ha dato materialmente il mandato alla polizia, e ha detto che lo sgombero è andato «molto bene» e che da oggi, giovedì 23 febbraio, il governo avrà «libero accesso» alla zona.
I Sioux, raccolti nella coalizione Standing Rock Rising, hanno già annunciato che non intendono cedere e che la loro azione continuerà in altri campi costruiti su terreni privati: «La libertà è nel nostro DNA, e non abbiamo altra scelta che continuare la lotta. In ogni modo non ci arrenderemo».