La normalità è sentirsi inadeguati alla normalità
Una premessa è d’obbligo: non sono stata esente dalla romanticizzazione della quarantena. Anzi. Ci ho sguazzato.
“Posso dedicarmi a cose che sino ad oggi ho accantonato!”, mi son detta sin dagli esordi del lockdown. Settimana dopo settimana programmavo serie indistinte di cose da fare.
Accanto a studio e lavoretti smartworking si sono accostati diversi temi: il tema lettura. Il tema cinema e serie tv. Il tema “lavori casalinghi rimandati da tempo immemore”, il tema “scrittura del romanzo autobiografico della tua vita” e, come una grandissima fetta d’italiani, non poteva mancare, infine, il tema “cucina gourmet e pizze con lievito introvabile”.
Dopo due mesi, mi ero ampiamente anticipata su la qualunque. Ho fatto le pulizie di primavera a marzo, il cambio di stagione ad aprile, recuperato i 6-7 romanzi comprati e mai sfogliati in attesa di tempi migliori, cucinato migliaia di ricette innovative e gettato nella pattumiera 2/3 di Lievito madre (spoiler: la ricetta che girava su facebook era un fake).
Una cosa che ora “mi manca molto” (eufemismo? Chi lo sa!) è l’acquisto giornaliero del giornale. Ore 9, in sella alla bici, armata di guanti, mascherina e autocertificazione, mi recavo all’edicola del paese e compravo il quotidiano o, se nel giorno di uscita, il mio settimanale preferito. L’odore della carta stampata miscelata a quello della libertà era una meraviglia. Un rituale che è divenuto abitudine, fino a che, dopo una cinquantina di quotidiani gettati alla rinfusa sul pavimento, scrivania e tavolini, ho creato una sorta di “scrigno del ricordo di quarantena”, in cui far confluire questo grosso cumulo di carta. Quasi ho pensato “è il momento giusto per pitturare!”.
Ho ovviamente letto La peste di Camus, Cecità di Saramago e ascoltato tutte le colonne sonore a tema “reclusione e sgomento”. Un’ovvietà.
Col senno di poi, posso ben dire di aver sbagliato ad approcciarmi alla Quarantena. Ma, d’altronde, non avevo termini di paragone con periodi similari, e, no, il Decameron non mi ha dato alcun feedback realistico.
Pensavo di poter imbottigliare il tempo, renderlo “gradevole”. Mi sono caricata di cose, molte delle quali inutili, per evitare il silenzio ovattato dei miei pensieri. Quando poi, di notte, in preda all’insonnia filtravo valeriana e insoddisfazione in una tazza di tè, mi rendevo conto che il mio “io” era imbavagliato per via delle immemori cose di cui mi stavo caricando.
Ad oggi, nella parvenza di “normalità” da Fase 2, forse fase 3, fase boh, mi chiedo, ma cos’è la normalità per me? Una risposta c’è, ma non è positiva. La mia normalità è l’equilibrio precario.
Come altre migliaia di giovani praticanti avvocati e concorsisti, mi ritrovo nell’incertezza certificata da decreti. In un limbo di dubbi in attesa di risultati.
La pandemia ha intricato ancora di più il nostro, non propriamente roseo, futuro. I tempi si dilatano sempre di più in preda a disorganizzazioni ed inadeguati apparati burocratici.
La quarantena mi ha lasciato una consapevolezza assurda: nel momento in cui tutti, dico tutti, eravamo costretti a stare in casa, mi sono sentita “appagata”, “parte vera di un tessuto sociale”. Quando poi la normalità ha preso a riprendersi i suoi spazi, io, rimasta in casa, senza una vera occupazione, con un futuro peggiorato ancor più di prima, mi son sentita spiazzata. La terra mi mancava sotto i piedi. Il sentimento di precarietà riaffiorava più imponente di prima, sgretolando le certezze di una reclusione coatta, cementata di paturnie e stareacasismi random.
La mia normalità… qual è?
Forse questa. Sentirmi inadeguata, rigettata, rifiutata.
A cura Rossella Puca – Fonte: Global Project