“La mia fuga dal proibizionismo”
Non ho ancora raccontato la mia storia con la legge anche per evitare il becero vittimismo, cercherò quindi di attenermi ai fatti senza cadere nell’autocommiserazione. Chi è causa del suo mal…
E’ da quando ho casa mia, ossia dal millenovecentoottantuno che coltivo qualche pianta sul terrazzo. Dotata di un grande pollice di colore verde, ho piante in fiore quasi tutto l’anno; qualche piantina di maria si è sempre ben mimetizzata e non ho mai avuto problemi. Fino a quando non passai all’indoor.
Avevo già fatto un piccolo esperimento molto improvvisato, con semi raccattati dai nipoti e una luce un po’ bassa, il risultato non era stato deludente anche se scarso in quantità. Ma quando vidi il mio figlio più piccolo Dario, poco più che ventenne, tornato da Amsterdam dove fa tuttora il cuoco, organizzarsi con lampade più potenti e concimi specifici, confesso che la cosa non mi piacque. Non mi piaceva l’andirivieni di amici e l’odore che si infilava ovunque e poi, preso dall’autoproduzione, il ragazzo non pensava a lavorare. Questo non andava bene, anche perché io invece lavoravo molto, avevo un negozio che mi dava un bel da fare. Era già una settimana che lo pregavo di levare tutto; le piante erano mature, le infiorescenze, grandi come una pannocchie, resinose e dall’odore quasi eccessivo che a volte avvertivo perfino nel portone quando rientravo a casa. Ma lui tergiversava, avrebbe tolto solo le cime per illuminare bene la vegetazione sottostante.
Mi preparavo per andare al Macef a Milano, la fiera per eccellenza. Una settimana frenetica di acquisti per il negozio, contatti con aziende, ricerca di cose belle a prezzi buoni. Avrei salutato mio padre e mio fratello che vivono lì e nel viaggio di rientro mi sarei incrociata con Dario che saliva a Milano per un colloquio di lavoro.
Bene, senza la sua presenza avrei provveduto a togliere la serra. Infatti il giorno successivo al mio rientro, nella pausa pranzo staccai definitivamente la lampada e ventilatore provvedendo così all’espianto. Sistemai le sette piante nella doccia del bagno di servizio. Avevo già raccolto le ultime tracce di terra e fogliame quando una scampanellata amichevole mi fa aprire la porta baldanzosa, senza neanche levarmi i guanti di gomma gialla.
Polizia. Cinque, sei o sette? Mah, ne ricordo due, il primo col quale ho avuto l’immediato battibecco e quello che mi ha accontentata quando gli ho chiesto, per favore, di non mettermi a soqquadro la casa. “Dov’è la droga e dov’è suo figlio! Senti che odore, non si respira”. In effetti eravamo in febbraio e avevo smosso tutte quelle piante a finestre chiuse. Non mi ero resa conto di essermi inebriata di resina e polline ed ora, col cuore che batteva all’impazzata, non mi sentivo tanto lucida.
“Droga? Io non ho droga, ho erba! E poi devo fare pipì”. “Nossignora lei non è stata ancora perquisita, aspettiamo la collega, oppure va in bagno con la porta aperta”. Quando mi emoziono non la tengo, riuscii a sgattaiolare e a chiudermi in bagno; pisciare a porte aperte? Erano matti. Guardavano e fotografavano il corpo del reato. “E suo figlio dov’è?” “ A Milano per un colloquio di lavoro” “Eh già…eh si…un colloquio di lavoro…”. Ma ‘sta faccia di merda, faceva pure facile ironia, pensava di trovarlo a casa, la sua assenza lo innervosiva. Dopo un battibecco con questa specie di poliziotto zingaro, dai capelli corvini e la pelle olivastra e che si permetteva di mettere in dubbio che mio figlio fosse un bravo ragazzo, decisi di addossarmi la colpa e di scagionarlo completamente: avrei avuto più possibilità di cavarmela io piuttosto che lui.
Mi venne in mente di chiamare un avvocato ma non conoscevo penalisti, telefonai a un amico civilista. Dichiarai di essere la responsabile della coltivazione, che infatti era in una stanza chiusa, e che avevo provveduto a dismettere non appena mio figlio, ignaro di tutto, era partito per Milano. Un bello smacco. Cercavano in tutti i modi di smantellare la mia tesi. “E allora come mai ci sono dei barattoli pieni di erba in camera del ragazzo?” “Non è la camera del ragazzo, ma la mia. Da quando mia nuora vive con noi ho ceduto loro la mia camera”.
Azz…erano lividi! Io dentro di me esultavo per la facile vittoria, ma ancora non realizzavo quello che sarebbe successo di lì a poco.
Sulla libreria della camera di Dario c’era una bilancina digitale, uno spalma burro ancora sporco di Nutella e un affare per triturare l’erba di cui non ricordo mai il nome, nel comodino qualche barattolo con le cime tolte pochi giorni prima. La bilancina era stata presa dalla busta delle mie pietre indiane e caricata di nuova batteria solo da pochi giorni. Avevo lavorato fino a qualche anno prima con pietre semipreziose e oro, usavo la bilancia che pesava anche i carati, prima di consegnare all’orafo il materiale. Quando esultarono per il ritrovamento della stessa, a prova di un’attività di spaccio (misera visto che quel tipo di bilancia pesa pochi grammi), mi difesi con veemenza, esibendo la busta dei preziosi a conferma delle mie parole. Ma non fu mai portata in questura, né l’amico avvocato, forse poco pratico, rimarcò la voluta dimenticanza.
Andammo alla Centrale con un’auto in borghese. Metà della squadra andò a pesare in farmacia la canapa. Fresca e con tutti i fusti, le radici e perfino la busta di foglie secche raccattate alla fine, pesava un chilo e sette, io pensavo di ricavarne, asciutta e pulita, cinquecento grammi. Un po’ di autonomia e regalini ai numerosi parenti e amici. Da lì, mentre aspettavo in un ufficio, telefonai a Dario e alla sua ovvia domanda, e cioè se stessi per andare in galera, realizzai all’improvviso che ero in un grosso guaio.
Non avevo proprio preso in considerazione questa possibilità, anzi nessuna possibilità, ovverossia non mi ero proprio posta la domanda principe.
In un attimo pensai al negozio che viveva un momento delicato, ai miei genitori ormai anziani, alla mia rete di rapporti sociali gravemente compromessa, all’altro figlio a Londra per lavoro e al mio amore che mi aveva lasciata da poco e che alla luce di quest’imprevisto, non sarebbe più tornato sui suoi passi, come io invece ancora speravo. La mia vita mi era sfuggita in quel pomeriggio, varcata la soglia del carcere ero sicura che non l’avrei riacchiappata mai più.
Dopo cinque giorni di disperazione l’interrogatorio del Gip mi conferma la detenzione: possibile reitero del reato. L’avvocato (il primo di due) mi aveva consigliato, a supporto della mia tesi e per scagionare del tutto Dario, di rispondere con precisione alle domande sulle tecniche colturali. Io mi sono lasciata andare a qualche disquisizione di troppo, e il giudice, pressato da una squadra di poliziotti frustrati dal fallimento dell’operazione che mirava a mio figlio, ha dedotto che la mia competenza era costruita al servizio di una mente criminale, ergo avevo avviato una “centrale di spaccio in centro città”, come scrisse il quotidiano del posto. La mia attività commerciale doveva essere la copertura di una molto più lucrosa, tanto da giustificare le cimici che qualche abile investigatore aveva messo nel negozio, come notò all’istante Elvira, la commessa.
Alla fine della storia ho sulle spalle una condanna definitiva a due anni e mezzo, di cui due mesi passati in galera, tre ai domiciliari dalla ex suocera e cinque con l’obbligo di firma. Ho richiesto l’affido ai Servizi Sociali per un residuo di pena di diciotto mesi. La dichiarata incostituzionalità della Fini-Giovanardi ne ha però bloccato l’iter. La vicenda mi ha causato la perdita del lavoro e di un bel po’ di soldi. Sono fuggita al caldo, in un posto tranquillo, dove è sempre estate, pochi hanno ambizioni, si campa alla giornata e il tempo è scandito dalle occasioni per fare festa. Tutto in perfetta linea col mio sentire del momento.