La lotta per i diritti di Marley: tra laico e religioso
Sono passati 40 anni dalla morte di Bob Marley, la cui rilevanza artistica dai connotati militanti e politici è diventata unica tramite l’arte della musica Reggae, credo da noi poco compresa nella sua essenza come strumento di battaglia civile. La sua figura ci accompagna tra i cambiamenti avvenuti a livello sociale e culturale in questi anni, in un mondo che si è trovato frammentato anche dalle errate scelte politiche.
L’anno prima della sua morte, nel 1980, Bob Marley venne in Italia per un concerto dalla portata epocale, che riaprì gli stadi italiani alla musica internazionale: il 27 giugno del 1980 le porte di San Siro si aprirono a una moltitudine variegata di persone, unite però da quel messaggio di pace e amore che Marley donava con la sua musica.
La storia dell’artista e della cannabis è strettamente correlata, anche rispetto al rapporto tra l’uomo e la sostanza, che aveva dei connotati specifici in questo caso, il cui significato non credo sia stato totalmente compreso oltreoceano.
Il concerto del 1980 non è culminato con una presa di coscienza rispetto all’inutilità del proibizionismo e a un cambio di paradigma culturale, ma come nelle migliori tradizioni abbiamo tradotto in merchandising la figura di Bob Marley insieme alla foglia di cannabis, dimenticandoci però di interpretare il significato delle sue canzoni, della sua vita da cantante militante in un contesto, quello della Giamaica, profondamente diverso dal nostro.
La mancata interpretazione ha fatto in modo che si acuisse la leggerezza della musica di questo artista e le sue pratiche, ma per capire meglio questa affermazione è necessario affidarsi a chi l’ha conosciuto e riportato in un libro la sua biografia: Roger Steffens, ai tempi autore di un programma radiofonico che lo portò a seguire in tour per due settimane l’artista giamaicano nel 1979 in California.
All’interno del libro “So much things to say: the oral history of Bob Marley”, Steffens presenta un setting dell’artista assuntore di cannabis, ricordando che alla domanda che gli veniva spesso posta sul livello di ‘stone’ giornaliero di Marley, lui rispondeva che sotto l’effetto di ‘Kaya’ Marley aveva scritto “Get Up, Stand Up”, “Exodus” e “Redemption Song”.
Nel libro emerge in modo chiaro l’uso consapevole e cosciente di questa pianta da parte di Bob, pianta che è diventata elemento ancora più importante nella sua vita dopo la conversione al rastafarianesimo: la sostanza veniva effettivamente usata come mezzo di comunicazione con Jah, contatto secondo Bob utile alla creazione: d’altronde di inni come “One Love” non ne sono stati creati molti.
Gli inni alla vita realizzati sotto l’influsso di un’erba che oggi in Italia qualcuno chiama ancora morte, senza riflettere sulle conseguenze della proibizione e quindi della mancanza di informazione su un tema così personale. Certo, mi sento di dire che Bob Marley era di per sé una persona che aveva dei legami profondi con la vita, non credo sia stata la marijuana a illuminarlo, ma certamente come è avvenuto nella storia per molti artisti con svariate sostanze, lo ha aiutato ad ampliare il raggio di ragionamento e sentimento. La lotta si rendeva concreta attraverso il pensiero, ed era una lotta di musica e parole necessaria per resistere.
Per capire il senso dell’artista Bob Marley è importante valutare quel complesso ma emozionante periodo storico: erano anni di divisione, pesava la centralità della Guerra Fredda nei rapporti tra Stati Uniti e Russia, la ribellione della Beat Generation sotto l’influsso di politiche proibizioniste a livello internazionale come la Convenzione Unica sugli Stupefacenti del 1961 licenziata dalle Nazioni Unite.
La rivoluzione del 1968 culminata con il sogno di libertà di Woodstock inasprì in qualche modo la stretta proibizionista, dovuta anche a qualche errore di alcuni antiproibizionisti alla Timothy Leary, che contribuirono, evidentemente in modo involontario, a fermare la ricerca. Pertanto nel 1971 ci fu un’ulteriore chiusura specifica: fu prodotta dalle Nazioni Unite la Convenzione sulle Sostanze Psicotrope, un ulteriore elemento di confusione soprattutto relativamente alla cannabis.
Si arrivò a Reagan, alla brandizzazione della persona, alla perdita del senso di produrre musica ribelle ma non violenta, al contrario di oggi. Oggi valutiamo la classifica. La costruzione del pensiero per arrivare a metterlo in musica e il lavoro di ricerca che si compie passano in secondo piano. Oggi valutiamo la qualità del video e non la qualità del suono. Abbiamo cinematografizzato anche la musica, in un mondo in cui senza la sollecitazione visiva, sembra che neanche la musica esista.
Ma torniamo in Italia, nel 1980. Anno del concerto a San Siro, dopo un decennio terrorizzante in cui il nostro paese stava uscendo zoppicante dagli anni di piombo, dalla strage di Aldo Moro, e si apprestava a un ulteriore decennio di confusione.
Il concerto ‘rito di liberazione’ dallo spettro della violenza degli anni ’70 riguardò forse troppo pochi, e troppo pochi capirono la forza del messaggio politico dell’artista. Di fatto le sue opere sono la messa in musica del discorso di Hailè Selassiè, Rastafari, all’ONU nel 1963: «Finché la filosofia che ritiene una razza superiore e un’altra inferiore non sarà screditata e abbandonata, finché ci saranno cittadini di prima e seconda classe, ci sarà guerra». Questo era il messaggio. Oggi in Italia si corre ancora il rischio di essere ghettizzati a causa delle proprie radici, come se, per citare Manu Chao, tutti noi non fossimo effettivamente “Clandestini” in questo mondo.
In Italia fu sempre Marco Pannella a segnalare le storture delle leggi proibizioniste, indicendo un referendum nel 1993 che chiedeva l’abrogazione delle pene per la detenzione a uso personale delle droghe leggere e che modificò la Iervolino-Vassalli. Arrivò la Fini-Giovanardi, una legge totalmente irrazionale e deleteria per le persone, che fu però dichiarata incostituzionale nel 2014.
Oggi la guerra alla droga crea cittadini di prima e di seconda classe, crea anche e soprattutto consumatori di prima e seconda classe. È evidente che siamo ancora in ritardo rispetto alla prospettiva auspicata da Selassiè, così come è evidente che nel nostro occidente la superficiale interpretazione dei fenomeni abbia contribuito a far diventare le crociate dei proibizionisti efficienti di fronte all’opinione pubblica.
La cultura diventa elemento cruciale per la battaglia della legalizzazione della cannabis e il ricordo di un militante cantante per la libertà, vissuto nel Delaware nell’estate del 1966 al culmine del movimento per i diritti civili, diventa essenziale per non perdere il senso.
One Love.
a cura di Federica Valcauda
Dott.ssa in Scienze Politiche e di Governo, fa parte del team di Meglio legale ed è la segretaria dell’Associazione Enzo Tortora Radicali Milano