Chi crede in una società libera deve continuare a lottare: il silenzio dell’Occidente sul massacro dei curdi
I curdi lottano da 40anni per legittimare un modello di vita alternativo in cui vige la democrazia diretta. Per questo vengono massacrati, ma non mollano
Siamo in Kurdistan. Più precisamente nei luoghi conosciuti con il loro nome curdo Rojava. Abbiamo deciso di partire come delegazione civile per toccare con mano il processo rivoluzionario in atto.
Proprio in questi territori, nel luglio del 2012, la popolazione è insorta cacciando i soldati del regime di Damasco e avviando il confederalismo democratico, paradigma sviluppato dal leader e cofondatore del Partito dei lavoratori del Kurdistan, Abdullah Ocalan, nei suoi scritti dall’isola-carcere di Imrali, dove è detenuto in totale isolamento dal 1999 e di cui non si hanno notizie da 23 mesi.
Da dieci anni il territorio del Rojava è amministrato attraverso una forma di autogoverno basato su pilastri fondamentali quali la democrazia diretta, l’ecologia e l’autonomia delle donne (cuore pulsante del processo rivoluzionario) insieme al pluralismo etnico e religioso che permette la convivenza pacifica tra diversi popoli. Per questi motivi crediamo fermamente che questa esperienza sia un faro di speranza per il Medio Oriente e un’avanguardia preziosa per tutta l’umanità.
Mentre eravamo lì, nella notte tra il 19 e il 20 di novembre, lo stato turco ha bombardato questi territori con aerei da guerra e droni. I bombardamenti hanno colpito un fronte di circa 700 km, distruggendo villaggi, scuole, ospedali, silos del grano e centrali elettriche. È stato colpito anche il campo di Al-Hol, dove le forze curde si occupano della gestione dei miliziani dell’Isis e dei loro familiari, permettendo loro di scappare.
Il presidente turco Erdogan ha presentato l’offensiva con il nome di “Spada ad artiglio”, come vendetta per le vittime dell’attentato di Istanbul avvenuto una settimana prima, ritenendo le forze rivoluzionarie curde responsabili. Le istituzioni confederali dell’Amministrazione Autonoma della Siria del nord e dell’est hanno immediatamente negato ogni coinvolgimento nell’attacco di Istanbul, affermando come l’attentato sia stato un’evidente montatura creata ad arte dallo stato turco per convincere le potenze internazionali presenti nell’area, Russia e Stati Uniti in particolare, ad autorizzare i propri piani di guerra nel nord della Siria.
Questo attacco arriva dopo mesi di continue minacce da parte di Erdogan, il quale lo scorso mese di giugno aveva annunciato l’intenzione di procedere con l’ennesima invasione del Rojava dopo quella dei cantoni di Afrin, nel 2018, e Serekaniye, nel 2019, tuttora occupati dall’esercito turco e da diverse milizie jihadiste sue alleate. La Turchia non ha mai smesso di colpire il movimento di liberazione curdo: ogni giorno attacca le postazioni della guerriglia sulle montagne del Basur, il Kurdistan iracheno, utilizzando anche armi chimiche vietate dalle convenzioni internazionali. L’obiettivo dichiarato da Erdogan è costruire una zona cuscinetto al confine turco-siriano per difendersi dalle forze rivoluzionarie curde. L’esperienza del confederalismo democratico spaventa perché alimenta la volontà di autonomia dei curdi in Turchia, minando le mire espansionistiche di Erdogan.
La mattina seguente ai bombardamenti, la popolazione del Rojava ha risposto scendendo in piazza in tutte le città. Abbiamo visto come il popolo ha saputo reagire nonostante tutto e questo ci ha fatto molto riflettere sul nostro modo di vivere. Un eccessivo pessimismo influenza negativamente la volontà di lottare nei nostri territori perché guidati dalla pretesa di avere sempre tutto e subito. L’esempio della rivoluzione in Rojava è significativo sotto questo aspetto, infatti solo una lotta lunga quarant’anni (e tuttora in corso) ha permesso l’autodeterminazione ad un popolo a cui era vietata la propria identità, la propria cultura e persino la propria lingua. Una dimostrazione a tutto il mondo che vale la pena lottare insieme per un mondo diverso.
Che cosa significa vivere in comune lo abbiamo visto nel momento in cui centinaia di persone, con la pala o con le proprie mani, hanno scavato le fosse nelle quali sono stati sepolti i martiri. Questo spirito cooperativo lo abbiamo ritrovato nella quotidianità con la condivisione dei beni di prima necessità e delle responsabilità, nel momento della critica/autocritica (takmil) presente nei gruppi assembleari, dove la critica non è distruttiva ma è data con amore e rispetto per migliorarsi reciprocamente.
In queste giornate tragiche abbiamo potuto vedere con i nostri occhi come, nonostante la guerra e un perenne stato d’assedio, grazie all’impegno di migliaia di persone, vengono messi in pratica uno stile di vita, un modello di sviluppo economico e culturale alternativi e opposti allo sfruttamento e alla violenza del dominio capitalista e patriarcale. Abbiamo visto una piccola parte dei crimini che il governo turco commette impunemente contro questi popoli. Ma abbiamo anche visto l’immensa determinazione del popolo del Rojava, il coraggio, l’incrollabile devozione alla causa e ai martiri e alle martiri che per questa danno la vita ogni giorno.
Inoltre, ci siamo resi conto di come in Italia non arrivasse alcun tipo di notizia su quanto accaduto. Nel silenzio generale dell’Europa e dell’Occidente tutto.