Cannabis

Tutte le bugie del proibizionismo (in un documentario su Netflix)

Tutte le bugie del proibizionismo (in un documentario su Netflix)

Una bugia, bella grossa, ipocrita e a sfondo razzista. Ecco cos’è stata la War On Drugs, che a partire dagli anni ’20 del secolo scorso, mise al bando negli USA la marijuana, tramite una guerra da combattere mettendo a ferro e fuoco solo ed esclusivamente il ghetto. E oggi, che la legalizzazione è una realtà negli States, la cosa è chiara agli occhi di molti.

È un’analisi a 360 gradi, sociale, politica, culturale, quella proposta dal recente documentario di Netflix, “L’erba del vicino”, sul complicato rapporto degli Stati Uniti con la marijuana. In 97 minuti di pellicola il regista e pioniere dell’hip hop, FabFiveFreddy, raccoglie l’opinione di svariati esperti in materia, tra cui Snoop Dogg, B-Real, Damian Marley e Steven Hager. Una narrazione che, muovendosi tra jazz, reggae, hip hop, discriminazione razziale e guerra al narcotraffico, mette insieme i tasselli di una vicenda dai risvolti complicati, montata in un clima di ignoranza, fomentata dalla falsità e dall’oscurantismo dei governi.

Mentre la canapa diventa mainstream è facile dimenticare il passato, ma la domanda, da cui parte il viaggio de “L’erba del vicino” è: perché dopo cent’anni di proibizionismo e milioni di vite rovinate nella guerra contro la marijuana, l’America la sta accettando solo ora? La risposta parte dalla collezione di dischi del padre di FabFiveFreddy, musicista jazz e devoto consumatore di erba. Fu infatti negli anni ’20, che nella musica jazz si iniziò a parlare di marijuana. Jive, weed, reefer erano termini ricorrenti, nessuno fuori dalla cerchia avrebbe capito di cosa si stava parlando, un po’ come accadrà svariati decenni più tardi nell’hip hop delle origini, ma per chi suonava fumarsi un big fat jive era la partenza ideale per la migliore delle jam.

Da Duke Ellington a Louis Armstrong, tutti fumavano erba all’epoca. In alcuni scritti privati di Armstrong si trovano diverse testimonianze della sua passione per le canne, un amore che lo fece finire al fresco. L’erba stava iniziando a dare fastidio, proprio perché appannaggio delle comunità afroamericana e ispanica; le prime proibizioni erano scattate e farsi beccare in strada con una tromba (e non parliamo del suo strumento) in bocca, non fu una grande idea da parte sua, ma, come scrisse: come poteva una pianta innocente, che cresce spontanea sulla terra, incutere al governo tanto timore?

Harry Anslinger, ecco chi avrebbe sicuramente saputo rispondergli. Già ispettore del Dipartimento della proibizione, nel 1931 fu nominato capo del neonato Ufficio Narcotici. Fu lui, razzista e bigotto, a dichiarare guerra all’erba, ribattezzata “the killer drug” (la droga degli assassini o la droga assassina) e favorendo la diffusione di una montagna di cazzate a riguardo (oggi le chiamiamo fake news).

Il caso di Victor Licata, “il maniaco della marijuana”, che nel ’33 a Tampa, in Florida, assassinò la famiglia con un’ascia, fu il primo esempio usato per provare la relazione tra utilizzo della cannabis e crimine. Licata aveva una storia di disordini mentali e nessun report psichiatrico sul suo caso menziona la marijuana come fattore scatenante della violenza omicida. Il binomio erba-crimine, però, era ormai entrato in circolo nell’opinione pubblica e nel ’37 il Marijuana Tax Act di Roosevelt ne proibì la coltivazione, anche a scopo medico, in tutti gli Stati Uniti.

Nessuno psicologo, medico o scienziato già allora aveva mai confermato le fandonie del governo sulla pericolosità della canapa, ma i contorni del problema erano chiari: a fumare l’erba erano le minoranze e questo offriva un escamotage ideale per mascherare la questione razziale dietro una questione di puro ordine pubblico.

Tutte le bugie del proibizionismo (in un documentario su Netflix)
Snoop Dogg

Il problema per il governo si ingigantì quando ad appassionarsi al jazz e alle canne furono anche i bianchi. Una figura come quella di Milton Mesirov aka Mezz Mezzrow, clarinettista bianco ed ebreo di Chicago, che arrivato ad Harlem, NY, all’inizio degli anni ’30, iniziò a gestire un cospicuo giro di erba, la dice lunga su quanto la situazione fosse sfuggita di mano al governo. L’influenza di Mighty Mezz toccò svariati artisti di quella che sarebbe diventata la Beat Generation, da Kerouac a Allen Ginsberg, padri e mentori della cultura hippie. Non erano ancora finiti gli anni ’60, ma era chiaro: la marijuana piaceva a tutti. A fare traboccare il vaso fu l’arrivo del reggae negli States. Immaginatevi i conservatori!

Fu così che sotto i governi di Nixon e Reagan la repressione al consumo di cannabis si fece feroce e ignorando il report della Shafer Commission, il governo con il Controlled Substances Act inserì l’erba nella Shedule I delle sostanze bandite, al fianco dell’eroina. E mentre le carceri si riempivano di afroamericani, come Bernard Noble, condannato a una pena di tredici anni per essere stato beccato con due canne addosso, fu ancora una volta la musica a raccontare la verità.

Dal Bronx in quegli anni arrivò un suono nuovo: l’hip hop di Grandmaster Flash e dei Public Enemy. Il loro messaggio fu più utile di qualsiasi lista di sostanze proibite nel tenere lontani i ragazzi dalla tossicodipendenza. Parlavano di marijuana e del leggendario Branson (che compare nel documentario), lo facevano in maniera cifrata, ma chi aveva orecchie per capire, capiva.

Nel 1985, poi, uscì “The Emperor Wears No Clothes” di Jack Herer. Il libro ispirò un movimento per la legalizzazione, che trovò nel rap di Cypress Hill, Snoop Dogg, Redman e Method Man la sua più accanita espressione. Nel ’92 anche Dr. Dre intitolò il suo disco d’esordio “The Chronic” e chi aveva orecchie per intendere, intese. Un anno dopo, i Cypress Hill salirono sul palco del Saturday Night Live per suonare “I Ain’t Going Out”. La produzione aveva insistito affinché non succedessero cose fuori dalle righe. Appena salito sul palco DJ Muggs si accese un bombolone bello grosso, soffiandone il fumo in faccia all’America. Furono banditi per sempre dal SNL.

Oggi molti stati hanno trovato una via alla legalizzazione, innescando, come era immaginabile, un circolo virtuoso della portata, si stima, di 57 miliardi di dollari e oltre 300 mila posti di lavoro entro il 2027. Una torta, della quale alla comunità afroamericana non restano che le briciole, un po’ per mancanza di capitali, un po’perché gran parte della gente dotata di un know how sta ancora scontando pene assurde. L’erba del vicino questa volta è davvero la più verde. Amnistia.

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