«La cannabis come parte integrante del trattamento del cancro», parla il dottor Calvanese
“Oggi non prendere in considerazione la cannabis terapeutica come parte integrante del trattamento di vari tumori significa essere colpevoli di omissione terapeutica che non ammette ignoranza. Colleghi oncologi su PubMed c’è tanta letteratura non solo sperimentale ma anche clinica. Se aspettate che un informatore medico scientifico ve la proponga nel vostro ambulatorio tra una visita e l’altra questo non avverrà perché non si tratta di un farmaco commercializzato dalla industria del farmaco, e questo forse non è un difetto ma piuttosto un pregio. In medicina ci vuole più cuore che chimica, in farmacia più galenica che industria”.
Sono le parole scritte di recente dal dottor Attilio Calvanese, che ci hanno spinto ad intervistarlo per capire meglio il suo pensiero su cannabis e cancro, a partire da questa domanda: le potenzialità della cannabis contro il cancro sono note da quasi 50 anni, eppure a livello globale gli studi clinici in merito non vengono incentivati come dovrebbero e in Italia il numero di strutture e di medici che propongono questo tipo di cure alternative è ancora estremamente ridotto. Perché?
Per saperne di più sull’utilizzo della cannabis terapeutica come parte integrante del trattamento dei pazienti oncologici abbiamo intervistato il dottor Attilio Calvanese, dirigente medico di Cure Palliative e Terapia del Dolore dell’Ospedale San Gennaro di Napoli ed esperto in terapia con cannabis medica.
Quali sono i principali benefici di una terapia a base di cannabis per i pazienti oncologici?
Una terapia a base di cannabis ha numerosi benefici, per esempio aiuta a ridurre il dolore e la fatica e stimola e ripristina l’appetito perso sia a causa della malattia che a causa della chemioterapia. Non solo, può, in associazione alle chemio, favorire anche la riduzione della proliferazione in alcune linee cellulari neoplastiche, soprattutto potenziando l’apoptosi, ossia la morte cellulare programmata. Tutti effetti benefici, questi, importantissimi e da non sottovalutare.
Come si sviluppa la terapia? Viene affiancata ai trattamenti tradizionali?
Purtroppo al momento la terapia è poco sviluppata e questo accade soprattutto perché non vi sono ancora linee guida approvate ufficialmente che prevedano l’affiancamento di utilizzo di cannabis alla tradizionale chemio. Per lo stesso dolore oncologico, per esempio, la cannabis non è la prima opzione, ma, piuttosto, una opzione di riserva che viene considerata solo dopo il fallimento dei trattamenti analgesici tradizionali a base di oppiacei. C’è bisogno di un cambiamento.
Perché, quando possibile, è meglio preferire una cura a base di cannabis rispetto a una a base di farmaci oppioidi?
I trattamenti basati sugli oppiacei possono causare danni a lungo termine all’organismo e, in alcuni casi, portare a dipendenza. Oltre a questo, però, dovrebbero essere evitati in particolare caso di sintomi ed effetti collaterali come depressione respiratoria, stipsi o nausea, prediligendo altre terapie.
Com’è la situazione in Italia? Quali sono le difficoltà maggiori nell’attivare questo tipo di cure alternative?
Purtroppo, sul territorio nazionale, i centri prescrittori, e che quindi prescrivono terapie a base di cannabis, sono ancora pochi e spesso anche la cannabis in quanto materia prima trova scarso approvvigionamento nelle farmacie galeniche abilitate, ossia quelle che preparano direttamente i farmaci. Serve una maggiore diffusione sotto ogni fronte.
Dalle ricerche, alcune che risalgono addirittura al 1974, è emersa una particolare capacità della cannabis e, nello specifico, del THC: quella di innescare dei meccanismi in grado di uccidere le cellule tumorali senza danneggiare quelle sane. A che punto sono gli studi? Come vengono sfruttati, se vengono sfruttati?
In realtà, mentre sull’animale da esperimento gli studi dedicati all’individuare i target specifici di CBD e THC nelle cellule tumorali — per esempio il gpr55 nell’adenocarcinoma pancreatico che lega il CBD ad alta affinità — sono piuttosto avanzati, le sperimentazioni sull’uomo sono ancora in fase embrionale sfortunatamente.
E perchè, secondo lei, gli studi in merito all’utilizzo della cannabis e dei cannabinoidi nei pazienti oncologici procedono a rilento o non vengono autorizzati o incentivati come dovrebbero?
La situazione è data prevalentemente dalla carenza di fondi e dalla mancanza di autorizzazioni. In particolare, manca il supporto delle case farmaceutiche e quello delle fondazioni scientifiche. Gli interessi e i fondi vengono spostati su altro.
A livello nazionale ha notato dei miglioramenti rispetto agli scorsi anni in termini di informazione, accettazione o utilizzo della cannabis medica da parte dei medici di base e del personale sanitario?
Negli ultimi due anni ho notato una maggiore apertura, anche perchè il feedback positivo dei pazienti che si sono sottoposti a trattamenti a base di cannabis ha convinto molti medici a rivedere le loro posizioni originarie. Purtroppo, però, restano ancora numerose sacche di resistenza alla conoscenza, a mio avviso la farmacologia del sistema endocannabinoide dovrebbe essere più divulgata. È importante fare informazione.
a cura di Martina Sgorlon