La parabola della Kava: da pianta maestra a bevanda mainstream
Simile ad un asiolitico, ma del tutto naturale: il punto su una sostanza di gran moda negli Stati Uniti, ma originaria delle Isole del Pacifico, che viene bevuta al posto dell’alcol, ma senza accertate controindicazioni
Negli Stati Uniti esistono dei locali detti kava bar in cui al posto dei cocktail si compra una bevanda che ha un effetto rilassante senza controindicazioni sgradevoli: si chiama kava e si ricava da una pianta con lo stesso nome che cresce in alcune isole dell’Oceano Pacifico. Le bevande sono preparate a partire dalle radici della pianta che contengono principi attivi chiamati kavalattoni: le radici vengono seccate e macinate e poi la polvere viene aggiunta ad acqua per produrre la bevanda. I kava bar si trovano anche in Australia e in diverse isole del Pacifico, come le Figi, dove la bevanda è consumata tradizionalmente dalle popolazioni autoctone, spesso nel corso di cerimonie. Gli abitanti delle isole ne hanno goduto per millenni e la pianta fa ampiamente parte della loro storia e tradizione.
Il suo potenziale è essere quasi come un Valium a base di erbe: è, quindi, molto utile per calmare l’ansia. All’inizio del ventesimo secolo, le proprietà sedative della pianta suscitarono la curiosità degli occidentali, che iniziarono a bere la bevanda al di fuori dei contesti tradizionali. La kava ricevette articoli persino sul New York Times già nel 1895. Poi negli anni ’80, il percorso della kava prese una svolta inaspettata: la radice entrò nel mondo degli integratori alimentari. Con l’arrivo del nuovo millennio, la kava passò da una bevanda sorseggiata da un guscio di cocco a una polvere fine inserita in capsule indirizzate agli scaffali delle farmacie fin quando non cominciarono a circolare voci sulla possibilità che la kava potesse essere dannosa per il fegato. Le reazioni dei governi furono rapide.
Nel 2002, la kava fu vietata in Germania, Canada, Francia, Regno Unito e altrove dopo uno studio controverso che evidenziava 60 casi di potenziali eventi dannosi per la salute, inclusi casi di tossicità epatica. Tuttavia, la ricerca fu messa in discussione direttamente dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) che in una lunga relazione sostenne che i divieti avessero danneggiato inutilmente le economie delle isole del Pacifico produttrici di kava e negato ai pazienti un trattamento efficace per l’ansia. Nel 2014, i tribunali tedeschi riesaminarono la questione per concludere che non c’erano prove sufficienti per un divieto: i ricercatori non poterono dimostrare che la kava fosse effettivamente dannosa, o quantomeno più dannosa di altri rimedi farmaceutici per l’ansia già in commercio: secondo i Centri per la Prevenzione e il Controllo delle Malattie (CDC) degli Stati Uniti, le benzodiazepine come Tavor e Xanax sono state responsabili di 7000 morti per overdose tra gennaio 2019 e giugno 2020.
Una ricerca del 2019 pubblicata in Drug Science suggerisce che, in base alle ultime conoscenze in merito, la tossicità epatica causata dalla kava si verifica in uno su ogni 60-125 milioni di pazienti. Gli autori dello studio hanno inoltre voluto evidenziare “un aumento della disinformazione sulla kava”, descrivendo le “affermazioni di danni e i resoconti della ‘kava come killer’ come ‘semplicistici’ e basati su ‘dichiarazioni errate'”. Alla fine, i divieti tedeschi sulla kava furono annullati.
Negli Stati Uniti, la kava non è mai stata vietata, ma nel Regno Unito e in altri paesi europei, il divieto rimane. In Italia non è illegale il possesso di kava (anche chiamata kava-kava) ma nel 2002 è stata vietata la vendita di prodotti contenenti questa sostanza.
In generale, dopo decenni di controversie, la kava oggi gode di ampia accettazione culturale ma come ogni volta che una sostanza da un contesto ristretto entra nel mainstream c’è bisogno di politiche all’altezza coadiuvata da una comunicazione onesta in grado di condurre a prodotti più sicuri e a un uso più responsabile. Solo così piante come la Kava possono prendere il loro posto legittimo nei rituali moderni.