A soppesare bene ogni sua mossa, a non scegliere mai la strada più facile, ma quella giusta per lui, Jack The Smoker ha imparato da ragazzino, ancora troppo giovane per cavalcare i fasti della Golden Age italiana, un ciclone nell’occhio del quale, fra tag, rime e cannette, si è fatto le ossa. Oggi Jack, classe ’82, è uno dei veterani della scena milanese, papà da poche settimane, e tra le prime uscite de La Crème con MACE, una marea di collaborazioni (tra cui Bassi Maestro, Rayden, Guè Pequeno), gli album solisti e i Mixtape con i soci di Machete, si è guadagnato un solido rispetto tra i rappusi.
Il suo percorso, da Lambrate, attraverso le strade di Pioltello, fino ai giorni nostri, si snoda tra le rime del suo ultimo lavoro, “Ho fatto tardi”. Un disco bello, curatissimo e impreziosito dai ft. con Lazza, Jack La Furia, MadMan e Dani Faiv, per realizzare il quale Jack si è preso il suo tempo, senza la paura di fare tardi un’altra volta, ma con la voglia di lasciare un segno. «Non mi piace troppo ripetermi e non vedo la musica come qualcosa di usa e getta – ci ha raccontato -. Ho aspettato di aprire altre prospettive, un altro capitolo della mia vita per fare qualcosa di originale e sono contento che il disco sia piaciuto anche a persone adulte e fuori dall’ambiente Rap».
Fai parte della più blasonata scuderia Rap italiana, hai uno storico di collaborazioni pazzesco e le tue uscite sono sempre attesissime dagli amanti del genere, ma il grande successo ancora non è arrivato. Come te lo spieghi?
Non vivo con l’ossessione del successo, alla ricerca della hit e poi il Rap, per come lo interpreto io, non arriva al grande pubblico. Non tutti hanno voglia della rima che va capita, riascoltata, i numeri li fa girare più un bel ritornello o una collaborazione con l’artista del momento. Con questo non voglio dire di essere un incompreso, quello che faccio non rappresenta ciò che va per la maggiore, ma io sono contento così e, poi, chissà!
In un post su Facebook hai detto: «Il Rap in Italia non è mai entrato davvero nelle teste delle persone». Però, in testa alle classifiche sì.
Bisogna capire cosa intendiamo per Rap. A parte i grandi maestri come Gué e Marracash, che sono delle istituzioni, ciò che viene messo nella categoria Rap è un cantato con sotto un beat Rap, ma non è Rap. In America vendono Kendrick Lamar, J. Cole, mentre in Italia Johnny Marsiglia e Big Joe escono con “Memory”, che è una perla, e fanno numeri bassissimi. Una certa cifra stilistica qui da noi non arriva, è un dato di fatto.
Il Rap italiano fa schifo, meglio se vado a Calcutta, il Pop italiano fa schifo, meglio se sparo a Calcutta (“Euro”). In quest’epoca di vuota retorica il Rap, come il Pop, continua a fare retorica vuota?
La sovrapposizione fra Rap e Pop ha svuotato il Rap del suo spirito antagonista e alternativo. Adesso ci riconoscono tutti come artisti legittimati, ma sotto quella formula un po’ innocua. La provocazione, che non sia per fare dei click, si è un po’ persa, ma questo è frutto dei tempi. È un nodo difficile da sciogliere, ma non lamentiamoci, oggi un artista come me può avere un’esposizione maggiore rispetto a dieci anni fa, quando non ci cagava nessuno. Dove sono cresciuto il Rap veniva considerato roba da looser, non mi sembrava possibile che diventasse mainstream e invece è successo.
In questo disco, tra il resto, parli di ambiente, del marketing aggressivo delle case farmaceutiche e di politica. Il Rap deve essere impegnato, politicizzato?
Vengo dal Rap newyorkese, da rapper che sanno stare sul beat con l’attitudine, come Notorius B.I.G., Mobb Deep, Nas, quindi mi piace lo spaccare puro e semplice, fa parte del genere, ma non lo sfoggio materialistico di cose, mi fa tristezza. A questo punto della mia vita, però, sentivo il bisogno di fare un disco personale, ma che fosse anche un insieme di tutte le cose in cui credo. Oltre a una certa, però, non vado, perché non voglio essere frainteso.
In giro per il mondo, chiedi a tutti fumi, tipo “bello il fiume Gange, ma ora vorrei Ganja a fiumi” (“Terminal”) è una delle nostre punchline preferite. La tua top 3 sull’erba?
Ho fatto dieci anni di punchline solo sull’erba, quindi la mia discografia ne è piena! Della roba forte c’è sicuramente in “Respect the Hangover” che ho fatto con Noyz, Fritz da Cat e Ensi o anche in “Ce l’ho” un pezzo che ho fatto per “Machete Mixtape III”.
Ho letto che sei passato al CBD, è così?
Ho avuto un piccolo problema di salute, per cui ho dovuto assumere cortisone per parecchio tempo e già quello mi metteva in uno stato di agitazione. La cosa mi creava un po’ di pesantezza mentale, quindi per un annetto e mezzo sono passato al CBD. Alla fine ho mollato sia CBD, che THC, ma non escludo che in futuro potrei ricominciare.
Una curiosità: com’è nato il nome Jack The Smoker?
Da ragazzino, proprio dal fatto che fumavo e sono sempre stato un po’ un esagerone. All’inizio ero Jack, mi taggavo in giro così, ma suonava un po’ troppo basic e poi in America c’erano questi rapper tipo Trigga The Gambler, Smoothe da Hustler, così ho cercato anch’io una formula del genere. Lo so, è un po’ altisonante, infatti vorrei snellirla, ma ormai è il mio distintivo.