J. COLE – "2014 Forest Hills Drive" (Recensione)
Quel freddo giorno di febbraio il vento picchiava forte e “Mr. Nice Watch” partì per caso grazie alla fedele riproduzione casuale dell’IPod. Mi ero appena trasferito a Monaco e mentre aspettavo la metropolitana per andare al lavoro, “Cole World: The Sideline Story” entrò di forza nella mia top 10 dei dischi preferiti degli ultimi anni per poi non uscirne più, accompagnando 3 mesi di gelo e scoperte sempre con le giuste note. Un disco che, al di là del valore affettivo che ha assunto nel mio mondo, nel 2011 suonava tremendamente fresco e che – dopo parecchi mixtape interessanti – ha consacrato definitivamente J. Cole scagionandolo dall’esser solamente “il nuovo tipo che Jay Z ha messo sotto contratto”.
Nel 2013 Cole ha poi provato senza successo a ripetere la magia deludendo tutti con lo spento “Born Sinner”, in cui han brillato solo “Power Trip” – grazie alla scintillante performance vocale di Miguel – e “Let Nas Down” – brano che il Cole ammiratore ha inciso col cuore per porgere le sue scuse a NAS, una volta scoperto che il Re di Queensbridge riteneva inadeguata la sua scelta di abbandonare storytelling e tecnicismi. Detto fatto, scusa NAS non volevo davvero e Cole capisce che forse è il caso di cambiare approccio. Perché il problema grosso è sempre confermarsi, non il discone d’esordio.
“2014 Forest Hills Drive” è arrivato praticamente a fari spenti. Nessun singolo di lancio, nessuna promozione su larga scala. In un giorno qualunque di novembre ritrovi Cole, dopo una relativamente lunga assenza, seduto sul tetto della sua casa d’infanzia (anche lui?!) che sguardo all’orizzonte annuncia l’uscita del nuovo album. Mood perfetto allora. Cole è sempre stato un rapper decisamente più emotivo rispetto all’average nigga, tanto da rendere la mostra dei sentimenti un suo intoccabile punto di forza. Non solo rapper, ma anche producer perché tutte le strumentali di “2014 Forest Hills Drive”, che ci fanno dimenticare le incolori produzioni di “Born Sinner”, nascono dalla sua vena creativa (con l’apporto di Vinylz e Dj Dahi) e sviluppano un background su misura per quello che in fin dei conti è un disco di Cole, col rap, i suoni e i ritornelli di Cole.
Dopo la soffice apertura adagiata sul piano di “Intro” e sui vocals di “28th January”, “Wet Dreamz” (uno dei momenti migliori del disco) racconta la prima volta di Cole senza tralasciare dettagli precisi, bugie sulle proprie abilità amatorie e l’ammissione di aver dato la solita e innocente “sbirciatina” ai porno per prender spunto sul da farsi. Sicuramente non un pezzo emotivo, ma senza dubbio umano. Se “03 Adolescence” annega nell’abusato tema del ragazzino timido snobbato dalla ragazza desiderata da tutto il college per poi scoprire che il futuro ha riservato stelle solo per il primo, “G.O.M.D.” e “A Tale of 2 Citiez” mostrano a tutta velocità l’eccellenza tecnica di Cole.
While silly niggas argue over who gon’ snatch the crown
Look around, my nigga, white people have snatched the sound.
(J. Cole – “Fire Squad“)
Parole a parte vanno spese per la chiaccherata “Fire Squad”: beat boom bap classico, groove vintage molto Wu-Tang e rime al veleno. Sveglia niggaz, perché funziona così da sempre. L’ha fatto Elvis in passato col rock di Chuck Berry e ora Eminem, Justin e Macklemore ce stanno a rubà sound e flow e Grammys. Difficile interpretare la cosa come un diss al settore “white” del mondo Hip Hop (sarebbe da pazzi viste le entità toccate), più facile leggerci invece un messaggio di risposta e di presa di posizione nei confronti della strofa spaccarapgame di Kendrick Lamar in “Control” – Cole c’è e vuole sbattersi per il vero e per le radici. Volendo però essere critici fino in fondo quell’allusione alla corona fa pensare proprio a Kendrick. Altro diss, altro giro? Non si sa, in ogni caso “Fire Squad” è una bomba. Plotone d’esecuzione a parte, ci sono anche brani come “Apparently”, “St. Tropez” e “Note to Self” che rallentano i battiti, cambiando completamente registro e abbandonandosi all’emotivo graffiante della voce roca di Cole, che si spinge in cantati piacevoli con discreta armonia.
In definitiva “2014 Forest Hills Drive” è la conferma che arriva in ritardo, saltando a piè pari la caduta di “Born Sinner”, e che catapulta J. Cole ai piani alti assieme ai grandi. Un disco personale, fin troppo per certi versi, in cui il rapper ama vestire i panni del populista e narrare fama, famiglia e gli sforzi dell’uomo comune con l’unica pecca di presentare canzoni che suonerebbero ancora meglio se non si concentrassero troppo sul farti notare quanto spaccano – Cole è ancora (troppo) ossessionato dal concept: ehi man, guarda quanto cazzo sono arrivato in alto! Tralasciando gli ego-moment più che naturali del rap, “2014 Forest Hills Drive” è un disco veramente pregevole e ben costruito, sicuramente uno dei migliori dell’anno. Produzioni deliziose e rap eccellente. Sembra quasi avvolto nella confezione dei classics.
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Mattia Polimeni