Italia: il paese dei forconi
Si sono (apparentemente) dileguati i cosiddetti Forconi. Un movimento di cittadini accomunati da un’accozzaglia di bisogni e di risentimenti, provenienti da svariate categorie professionali: dagli agricoltori, ai camionisti, da ex imprenditori fino a qualche studente. Dopo il riuscito esperimento di due anni fa in Sicilia, quando per 1 settimana migliaia di manifestanti bloccarono l’isola fino a provocare allarme sociale per l’esaurimento del carburante in molti distributori e dei viveri in molti supermercati, il movimento dei Forconi ha mantenuto la promessa: quella di varcare lo stretto di Messina per invadere tutta l’Italia all’insegna della serrata e del disordine. Hanno tentato di metterla a ferro e fuoco dappertutto, la penisola, con blocchi stradali e presìdi in luoghi nevralgici di molte città. Da Bari a Vicenza, da Venezia a Torino e Milano, è stata una settimana di passione, quella dal 9 al 15 dicembre scorsi. Il Paese ha vissuto da vicino gli umori di uno spaccato di società italiana attuale, impoverita dalla crisi, con un’ondata di malessere che si è tradotto in disagi e blocchi in più parti. Le armi usate, più che il familiare attrezzo appuntito assai utile in campagna nonostante la meccanizzazione dell’agricoltura, sono stati i trattori, i camion e i gazebo accampati in prossimità degli svincoli stradali, attorniati da slogan all’insegna della ribellione e della rivoluzione. Indirizzati a chi? Al cosiddetto sistema attuale, che va dall’istituzione europea alla classe politica italiana, fino all’euro. Temi poco dibattuti in tivù, se non con i soliti filtri linguistici attenti alla persuasione, ma assai popolari in Rete: vera aggregatrice di questa rivolta che per una settimana i media generalisti hanno sminuito bollandola come un’iniziativa fascistoide, di qualche personaggio folkloristico con idee sgangherate in tema di democrazia.
Leader indiscusso dei Forconi è Mariano Ferro, agricoltore siciliano di Avola, lo stesso che due anni fa organizzò la rivolta in Sicilia, quando a governare l’isola c’era Raffaele Lombardo, e a fare il premier c’era Mario Monti. In quei giorni, per la prima volta nella storia repubblicana, in una piazza di Palermo fu bruciato il Tricolore da un corteo di studenti. Un fatto gravissimo che la politica di allora, come quella odierna, sottovalutò assieme a tutta l’iniziativa. L’allora ministro Passera si disse meravigliato per i “blocchi ingiustificati”, e il leader di Confindustria Sicilia Lo Bello accostò le proteste a infiltrazioni mafiose, guardandosi bene dal fare nomi e cognomi. Monti si limitò a promettere «D’ora in poi ci concentreremo su crescita lavoro», con i risultati che vediamo. In questa seconda tornata di protesta, stavolta nazionale, con Crocetta a governare la Sicilia ed Enrico Letta in veste di premier, ai Forconi non è riuscito il vero e proprio blocco dell’Italia com’era nelle intenzioni, ma certamente ha registrato un’adesione massiccia, oltre il prevedibile. In strada sono scesi di nuovo contadini, camionisti, ex imprenditori e anche molti studenti. La città di Torino ha vestito i panni di capitale del disagio durante i 5 giorni di agitazione. Nel capoluogo piemontese si sono registrati i maggiori focolai di scontri tra manifestanti e forze dell’ordine. Anche in questa tornata di proteste i media generalisti si sono affrettati ad arginare la rivolta come fenomeno isolato di qualche ultrà scalmanato vicino a Casapound. La rivolta dei Forconi è stata sedata nei telegiornali dalle primarie del Pd con Renzi che discettava di “salvaguardia del bipolarismo”, fino ai “ragionamenti” di Alfano sul sindaco d’Italia. Una sottovalutazione programmata e ben riuscita, da parte dei media generalisti, che tuttavia non ha scalfito la preoccupante nota del dipartimento di Pubblica sicurezza in cui si leggeva che «Il problema è fermare il contagio. Impedire che all’innesco segua un’incontrollabile reazione a catena nelle piazze del Paese». Eccolo riassunto in queste parole il potenziale esplosivo della miccia della rivolta dei Forconi. Una sorta di partito trasversale dei disperati che non ha più nulla da perdere. Quelli che non ne possono più di tasse smisurate, burocrazia e complicità delle istituzioni con i cosiddetti poteri forti. Quelli che hanno comandato con i fili la classe politica dell’ultimo ventennio, di destra e di sinistra, all’insegna dell’immobilismo e degli eterni rinvii.
Sono loro, i cittadini emarginati dall’economia della finanza creativa, quelli che stanno ingrossando le fila del disagio dilagante. Impossibile da ingabbiare in un modello. I disagiati e i disperati provengono da tutte le categorie sociali e da tutte le aree geografiche. Si organizzano in Rete, tramite il sito www.iforconi.it ma soprattutto col passaparola su Facebook. Sono una “forza d’urto” che potrà avere conseguenze sull’ordine pubblico in funzione dell’aumento di coloro che non avranno altre soluzioni se non quella di scendere in piazza. Il movimento dei Forconi si dice che non abbia idee. Che non abbia un obiettivo. In effetti non lo si può paragonare agli Indignados di Madrid. Quello era un movimento che chiedeva una riforma del sistema politico spagnolo e l’apertura di nuovi spazi sociali ed economici. Qui invece siamo di fronte a un campionario di frustrazioni e disagi che la politica difficilmente potrà controllare.
I Forconi hanno avuto la loro collocazione mediatica nella settimana di proteste annunciate. Ma qua e là il Paese è già in eterna guerriglia. Napoli ha raggiunto livelli di povertà mai visti dal dopoguerra. Il Lazio e la città di Roma, secondo il rapporto Eures ricerche economiche e sociali, registrano un furto ogni tre minuti. Si parla di «allarme rosso» e di «guerra tra poveri in un clima di sopraffazione e disperazione». Il 2013 si chiuderà con un settore dell’edilizia in croce. Con gli investimenti crollati più del previsto, con una strage di aziende, fallite nell’ordine delle decine di migliaia dall’inizio della crisi, il 2008, e con posti di lavoro andati in fumo ormai nell’ordine del milione. Il governo Letta balbetta di «aggancio alla ripresa» e di «fine della recessione». In realtà il disagio dei Forconi, è il disagio dell’ossatura sociale italiana. Quella della classe media impoverita che non ha vie d’uscita dalla crisi se il Paese non riacquisterà sovranità, probabilmente anche monetaria. Il Vaticano, dopo anni di complicità al sistema del riciclaggio grazie agli artifici finanziari dello Ior, la Banca vaticana, è l’unica istituzione-Stato che pare sposare la causa degli ultimi. Papa Francesco è un rivoluzionario che ci voleva vent’anni fa, quando a capo dello Ior c’era Paul Marcinkus, passivamente accettato da Papa Wojtyla nonostante le ormai passate amicizie piduiste con la buonanima di Michele Sindona e Roberto Calvi. Papa Francesco si è spogliato degli ori, ha rinunciato ai salotti e si è aperto ai clochard. Forse sta tentando di convogliare lì, in piazza San Pietro, la marcia su Roma annunciata dai Forconi. Che non si sono dileguati. Anzi, con questo andazzo non potranno che aumentare. Con esiti imprevedibili per la tenuta di questo Paese.