Iper globalizzati e senza futuro
Strano progresso quello intervenuto durante gli ultimi decenni, vissuti nell’illusione di essere diventati “cittadini del mondo”, mentre in realtà abbandonavamo ogni connotazione umana, per trasformarci prima in risorse e capitale e poi in esuberi, da smaltire in qualche maniera, possibilmente senza fare troppo rumore. Strano progresso quello arrivato melodioso attraverso le voci melliflue dei cantastorie, impegnati ad incensare le virtù taumaturgiche del libero commercio e della grande finanza, mentre “l’uomo comune” iniziava a morire, deprivato della propria identità e di ogni prospettiva di futuro.
Un progresso declinato nel verbo delle multinazionali e del gigantismo, dove piccolo è brutto per antonomasia, dove l’appartenenza e il senso di comunità sono piaghe da estirpare nel nome del mondialismo, dove le nazioni costituiscono il retaggio di un passato da dimenticare, ormai immolate sull’altare dei mercati, della finanza globale e di una piccola élite parassitaria che gestisce la vita di tutti noi, sempre che questo esercizio quotidiano di sopravvivenza possa definirsi vita. Ci hanno raccontato che sarebbe stato necessario rottamare istituzioni anacronistiche come lo stato e la famiglia, per entrare in un futuro radioso costituito da istituzioni transnazionali in grado di renderci liberi e felici. Che avremmo dovuto aprire le nostre frontiere alle importazioni, che quella della globalizzazione si sarebbe rivelata l’unica strada praticabile e oltretutto la migliore scelta possibile.
E tutti noi abbiamo accettato, obnubilati dal canto delle sirene mediatiche, spaventati dall’accusa di antimodernismo, plagiati da facili promesse che mai si sarebbero tradotte in realtà.
Abbiamo accettato un futuro privo di qualsiasi coordinata, dove l’iper-globalizzazione ci ha rubato ogni scampolo di umanità, dove perfino garantirsi il reddito necessario alla sopravvivenza sembra essere diventato un miraggio, dove una piccola casta transnazionale governa e gestisce tutto. Dall’economia alla politica, dall’informazione al mercato del lavoro, dalla cultura dominante alla gestione delle risorse. Le nazioni non sono ormai altro che gusci vuoti che si allungano su confini virtuali, all’interno dei quali arringa la folla un variopinto bestiario politico, interamente a libro paga del medesimo padrone. Il tenore di vita e le prospettive della popolazione continuano una caduta libera che sembra non avere fine, mentre ogni cosa si livella al ribasso, su scala sempre più globale.
Ci hanno raccontato per decenni che la globalizzazione sempre più spinta era parte integrante del progresso, non avremmo potuto stare meglio senza sradicare le nostre radici e avremmo dovuto farlo presto, perché nella modernità tutto corre veloce. Oggi siamo solamente una massa di “risorse” atomizzate, che corrono a perdifiato senza sapere dove andare, dal momento che nel mondo globalizzato non c’è più nessun posto in cui sentirsi a casa e nessuna famiglia con cui condividere qualcosa, ma solo un vuoto tanto assoluto quanto globale.