Insegnante assolta a Milano, ma la coltivazione di cannabis resta un reato
Un'insegnante di Milano a processo per aver coltivato 3 piante e per la detenzione di 750 grammi è stata assolta, ma questo non significa, purtroppo, che coltivare cannabis sia legale
Ha fatto molto scalpore la notizia della sentenza della corte d’Appello di Milano che riformando una sentenza di primo grado ha assolto un’insegnante dall’accusa di coltivare 3 piante di grandi dimensioni e detenere un quantitativo di sostanza piuttosto cospicuo, attorno ai 750 grammi.
È un segno di speranza, è un segno anche di una maggior attenzione di una parte della magistratura al tema della coltivazione e dell’utilizzo della cannabis sia per scopi personali che per copi più specificatamente terapeutici.
Quello che per altro mi sembra abbastanza stonato e forzato è il riferimento che una certa stampa ha fatto in relazione alla portata della vicenda che non ha niente di inedito e soprattutto, a mio modo di vedere è molto inquietante e sconcertante l’insieme di conclusioni che ne derivano che stravolgono completamente la situazione normativa e giurisprudenziale italiana.
INSEGNANTE ASSOLTA, MA LA COLTIVAZIONE RESTA REATO
Ma andiamo con ordine. Si sostiene, attribuendo queste parole al difensore, che credo non le abbia pronunziate, perché si tratta di tesi radicalmente errate, “che detenere e coltivare cannabis“, riporto testualmente, “non costituisce alcun tipo di reato, a patto che non la si ceda a terzi”. La sentenza in parola, in questo modo, verrebbe ad impropriamente omogeneizzare sia la coltivazione che la detenzione. Questa affermazione è in parte vera (per la detenzione), ma è, altrettanto, in parte gravemente sbagliata (per la coltivazione). Detenere per uso personale a certe condizioni non è reato, la coltivazione, invece, è sempre reato. La coltivazione incontra un divieto generale, rispetto al quale opera una deroga giurisprudenziale, la quale, però, deve essere in qualche modo ratificata da un giudice attraverso la valutazione processuale di circostanze di fatto, che devono essere riconosciute, all’esito di un giudizio penale. La sentenza SSUU n. 12348 del 2020 ha riaffermato il principio generale che la coltivazione è un reato e rimane tale all’interno dell’art. 73. Quindi, non è vero assolutamente che si possa coltivare liberamente, e questo è un messaggio pericoloso e fuorviante per tutti coloro che vogliano coltivare per un fatto ludico-ricreativo o terapeutico.
ASSOLUZIONE PER COLTIVAZIONE DI CANNABIS, NON È LA PRIMA VOLTA
Si dice, poi, che per la prima volta i giudici di merito hanno riconosciuto la coltivazione per uso personale: anche questo non è affatto vero. Da tempo immemorabile (almeno 9 anni a partire dal 2013) i giudici di merito riconoscono in specifiche situazioni una inoffensività della coltivazione e mandano assolti gli imputati, laddove riconoscano che la coltivazione non ha un carattere di offensività, cioè di aggressione rispetto al bene che la norma tutela che è quello della salute in generale e dell’ordine pubblico. Se la coltivazione fosse – come si sostiene – in realtà, liberamente ammessa, non si capirebbe allora perché, all’esito di pronunce assolutorie o di archiviazioni, i giudici dispongono ed ordinano la confisca e la distruzione delle piante in sequestro. Se esse fossero lecite questo ordine non potrebbe essere emanato.
Sostenere che non è stato necessario ricorrere all’uso terapeutico per vincere la causa è anch’essa un’affermazione giuridicamente priva di pregio. Come già detto, non è mai stato finora necessario utilizzare il profilo della necessità salutistica, anche se ricordo che si sono state importanti e interessanti pronunce in ordine alla coltivazione per uso terapeutico. Ricordo la famosa sentenza di Arezzo che riguardava il signor De Benedetto, che è stata l’ennesima pronuncia in tal senso. Tale richiamo dimostra che quelle dichiarate come inedite sono, in realtà, soluzioni che sono già state adottate. E’ possibile che siano, forse, sporadiche, che non abbiano una spiccata continuità, ma da qui a invocare e sostenere che sia intervneuto con la pronunzia della Corte di Appello di Milano un cambiamento repentino della giurisprudenza, ce ne corre assai.
È chiaro che se il difensore, del processo tenutosi a Milano, ha posto l’accento sulla decisività del fatto che non ci fossero prove a sostegno della tesi di una eventuale possibile accusa di cessione, emerge la circostanza che egli ha ben governato lo strumento giurisprudenziale, ma è pacifico che, al contempo, non ha potuto evocare uno di tipo strettamente normativo, e quindi ha operato una valutazione ermeneutica dello stesso.
La norma, infatti, stabilisce e configura solo dei parametri generali, (l’art. 75 comma 1 e comma 1 bis dpr 309/90), che ci forniscono delle coordinate generiche ed introducono una presunzione di liceità della detenzione che non si estende alla coltivazione, che può essere vinta solo dalla prova contraria proposta dal PM.
Quando si afferma quindi: “Ogni cittadino è libero di coltivare la propria cannabis al di là dell’uso ricreativo o medico, coltivare è sempre consentito”, si dice una eresia. Ciò non è assolutamente vero. Sarà sempre ed ancora un giudice a stabilire se la coltivazione sia penalmente irrilevante (e come tale ammissibile) o no. Chi coltiva lo fa, però, a proprio rischio e pericolo, lo fa rischiando un arresto, un’indagine, un sequestro e un processo. Non è assolutamente vera la libertà di coltivare sostenere tale infondata tesi significa ribaltare il termine del problema. La non punibilità, non significa liberalizzazione, e stabilire una simile equazione è una cosa assurda. Non confondiamo la coltivazione con il divieto di cessione a terzi, così facendo, si crea una confusa miscellanea di concetti che sono tra loro indipendenti ed autonomi.
Mi pare chiaro che sostenere che la sentenza in parola introduca inedite novità in diritto ed apra nuovi traguardi nel modo giudiziario/forense, costituisca cartina di tornasole della dimostrazione che o non si ricordano o non si conoscono le numerosi sentenze precedenti ed analoghe. A tutti rivolgo, quindi, un caldo invito a documentarsi bene, prima di formulare affermazioni del genere ed anche a studiare ed interpretare bene le sentenze della Suprema Corte. Quando si dice che le Sezioni Unite hanno evidenziato come la coltivazione esclusivamente personale non sia reato, si dice, infatti, una cosa che non è per nulla precisa. La Corte di Cassazione, ribadendo, in primo luogo, un divieto generale alla attività coltivativa, ha affermato il principio che, a specifiche condizioni, si può non essere puniti. Non ha, però, affatto, introdotto una categoria di liceità della coltivazione tout court. Quindi, il fatto può essere dichiarato come non sussistente sol perché è intervenuta una valutazione del giudice, ma non c’è (e non ci può essere) una valutazione di natura preventivo-anticipatoria che prescinda dalla giurisdizione. E’, dunque, importantissimo tutto quanto premesso e soprattutto una notevole attenzione ai profili di diritto connessi con gli istituti che regolano la disciplina degli stupefacenti e di specifiche condotte, quali quelle in esame. Soprattutto, però, è essenziale dare delle informazioni corrette, senza farsi travolgere da fuorvianti entusiasmi . Il cammino per ottenere la depenalizzazione della coltivazione della cannabis è, purtroppo, ancora molto lungo e senza un intervento normativo, si continua a navigare a vista con la speranza di ottenere delle pronunce da parte di giudici illuminati, e con la paura di incontrare, come purtroppo talvolta accade (e mi è accaduto recentemente), giudici meno illuminati e più orientati al proibizionismo con anche piccoli quantitativi coltivati che vengono ritenuti illeciti.