INFO CANNABIS: tutto quello che c’è da sapere
Le domande poste più frequentemente sull’argomento Cannabis e relative risposte, sostenute da studi scientifici e fonti verificate. Una guida completa e in costante aggiornamento, con link e collegamenti per approfondire ogni singola voce.
Le risposte sono state redatte da giornalisti professionisti con esperienza in materia.
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La cannabis (o canapa) è una pianta a fiore della famiglia delle Cannabaceae, sottoinsieme dell’ordine delle piante Urticales. Ne esistono tre specie: Sativa, Indica e Ruderalis e diverse sottospecie.
In natura si contraddistingue per essere una pianta a ciclo annuale, che germina in primavera e fiorisce in estate inoltrata, quando le ore di luce diminuiscono. Fisicamente, pur con variazioni anche notevoli, si presenta di altezza media di 1,5 – 2 metri ed è caratterizzata da foglie palmate e fusto diritto e peloso. La sua impollinazione è anemofila, avviene cioè grazie al trasporto del vento.
Per molto tempo si è ritenuto fosse originaria dell’Asia centrale, dove furono ritrovate prove della sua coltivazione già a partire dal 5.000 a.C.. Tuttavia recenti studi mettono in dubbio questa origine, lo studioso Giorgio Samorini, ad esempio, ha testimoniato l’esistenza in Europa di canapa allo stato selvatico ben prima di questa datazione. I ritrovamenti più antichi sono stati in Italia: nel lago di Albano, in provincia di Roma, con una datazione del 11.500 a.C., e nei fondali costieri dell’Adriatico centrale, con le prime datazioni all’11.000 a.C. (per approfondire: clicca qui).
La differenziazione tra canapa e marijuana ha un’origine del tutto arbitraria che è stata introdotta negli Usa, all’alba del proibizionismo, a partire dagli anni ’30, quando le lobby dell’industria ed i media cominciarono a costruire la criminalizzazione della pianta e quindi le basi del proibizionismo.
Tuttavia si tratta di una classificazione che in certo modo si è imposta ed oggi viene ampiamente utilizzata entrando a far parte dei dizionari e delle classificazioni comuni.
Con il nome di canapa si intende la varietà priva di principio attivo psicoattivo (in natura, generalmente, il maschio della pianta), che viene utilizzata per produrre alimenti (semi, olio, farina), bio-carburante, carta, tessuti, cordame, prodotti cosmetici e materiali (spesso innovativi e molto efficienti) e per la bio-edilizia.
Con il termine marijuana si intende invece la variante di canapa contenente il principio attivo Thc in quantità capaci di generale effetto psicoattivo. La marijuana è considerata una droga leggera e la sua coltivazione in Italia è vietata. Anche se sempre più paesi nel mondo la stanno legalizzando (per approfondire: clicca qui)
La canapa è una pianta che ha accompagnato l’umanità per migliaia di anni. Originaria delle regioni dell’Asia Centrale, lungo il corso dei secoli si è diffusa praticamente ovunque, superando ogni tipo di avversità ambientale. Possiamo trovarla in tutto il bacino mediterraneo e nelle Americhe, nelle regioni più interne dell’Africa e in nord Europa, nel continente australiano e nell’Oriente più estremo.
I suoi utilizzi sono innumerevoli, ma noi li abbiamo riassunti e semplificati in 9 grandi settori: uso ludico / spirituale / religioso, uso medico, uso edile, uso tessile, uso carta, uso alimentare, uso cosmetico, uso plastica, uso carburante.
Sono tutti spiegati in questa pagina speciale del nostro sito web.
Indica, sativa e ruderalis rappresentano le tre principali tipologie genetiche di cannabis. Anche se, botanicamente parlando, queste tre varietà appartengono tutte alla stessa famiglia delle Cannabaceae, ciascuna presenta caratteristiche genetiche proprie.
La cannabis sativa è quella che raggiunge le dimensioni più imponenti ed è originaria delle zone equatoriali. Le piante di sativa sono meno cespugliose e più alte ed hanno rese produttive proporzionalmente più elevate. Le foglie sono sottili e a sette punte, ovvero sono le “classiche” foglie di ganja comunemente rappresentate. In natura la cannabis sativa tende ad avere alte concentrazioni di THC ed un contenuto relativamente basso di CBD, una volta fumata genera effetti fortemente cerebrali, stimolanti ed energizzanti, favorendo la concentrazione e l’aumento della creatività.
La cannabis indica è più cespugliosa e contenuta nelle dimensioni. È originaria delle zone subtropicali più impervie, caratterizzate da una luce solare meno costante durante l’anno rispetto all’habitat equatoriale della sativa. Per questo le foglie delle piante di indica si contraddistinguono per la loro forma più tozza e per la superficie più larga delle singole “dita” delle foglia, adatte ad ottimizzare la luce solare ricevuta. Le varietà di Cannabis indica sono conosciute il contenuto CBD, decisamente più elevato rispetto alla sativa. Genera effetti caratterizzati da rilassatezza mentale e muscolare, calmanti e concilianti del sonno.
La cannabis ruderalis cresce in natura nelle regioni climatiche più rigide, come Russia e Cina del nord. La sua caratteristica principale è quella di essere autofiorente, ovvero di non dipendere dal fotoperiodo per fiorire. Per questo è in grado di crescere anche abbandonata a sé stessa, senza necessitare di cure particolari. La ruderalis contiene livelli di THC e CBD talmente bassi da essere inefficaci in forma pura. Per questo è stata a lungo inutilizzata. La sua rinnovata celebrità è da attribuire alla sua utilità nella creazione di genetiche ibride (ovvero in parte ruderalis, e in parte indica e/o sativa), dalle quali si ottengono varietà di cannabis con concentrazioni di principi attivi proprie della indica o della sativa, ma autofiorenti, e quindi più facili da coltivare.
Per approfondire la differenza tra le varietà di cannabis clicca qui, mentre se vuoi conoscere a fondo l’affascinante tassonomia della cannabis ti consigliamo questo articolo.
La cannabis contiene un’enorme quantità di principi attivi. Su oltre 600 sostanze che la compongono troviamo i terpeni (oltre 200), gli idrocarburi, i flavonoidi, gli acidi grassi, gli alcoli, gli aldeidi e altre sostanze ancora, oltre ai circa 120 cannabinoidi che sono stati identificati fino ad oggi.
La distribuzione dei cannabinoidi varia nei differenti ceppi di cannabis ed in genere solo tre o quattro cannabinoidi si trovano in una pianta in concentrazioni superiori allo 0.1%.
Il Δ-9-tetraidrocannabinolo (THC) è il componente più conosciuto della cannabis: è l’unico cannabinoide ad avere proprietà psicoattive ed è stato isolato per la volta nel 1964 grazie al lavoro condotto dal dottor Raphaem Mechoulam. Si lega ad entrambi i tipi di recettori finora identificati, i recettori CB1 e CB2. Ricerche approfondite negli ultimi decenni spiegano che il THC possiede numerose proprietà medicinali che sono utili in una vasta gamma di disturbi, alcuni dei quali comprendono: il morbo di Alzheimer, l’aterosclerosi, il glaucoma, la sclerosi multipla, il morbo di Parkinson, l’apnea del sonno, la sindrome di Tourette, il cancro (in varie forme) e molti altri. Il THC ha anche proprietà antiemetiche (anti-nausea) che lo rendono utile per il trattamento di AIDS e pazienti in chemioterapia.
Gli studi che documentano gli effetti a lungo termine dell’assunzione di THC hanno avuto risultati diversi e incoerenti. Anche se molto dibattuti, alcuni studi sostengono che un impiego a lungo termine possa provocare effetti collaterali negativi come perdita di memoria a breve termine o tassi più elevati di psicosi e schizofrenia. Ma il THC ha anche dimostrato di avere una serie di effetti positivi sulle cellule cerebrali. Considerando che la maggior parte delle droghe ricreative sono neurotossiche, il THC è considerato un “neuroprotettore” e significa che può proteggere le cellule cerebrali dai danni causati ad esempio da infiammazione e stress ossidativo. Gli scienziati hanno anche dimostrato che il THC può favorire la crescita di nuove cellule cerebrali attraverso un processo noto come neurogenesi.
Il CBD è un altro cannabinoide attualmente al centro di diverse ricerche scientifiche per le sue doti terapeutiche. Non solo, perché la proprietà del CBD di contrastare gli effetti psicoattivi del THC, ha visto l’ingresso di questo cannabinoide anche nel settore della cannabis ricreativa con molti strain che sono stati arricchiti di CBD in rapporti di 1:1, 2:1 o superiori rispetto al THC. Oltre agli studi come antipsicotico e nella terapia del dolore il CBD e genetiche di cannabis ad alto contenuto di questo cannabinoide, sono al centro di diverse sperimentazioni e studi clinici su diverse forme di epilessia farmaco-resistente, in particolare in casi pediatrici e di giovani pazienti.
I terpeni sono la classe di sostanze chimiche con il più vasto assortimento di odori e sapori. Contribuiscono in modo determinante alla qualità di frutta e verdura e sono coinvolti nella sintesi di sostanze biochimiche diverse come vitamine, ormoni, oli e cannabinoidi ed hanno diverse proprietà terapeutiche. Nella cannabis sono stati identificati diversi terpeni dagli effetti terapetuici come ad esempio il mircene, il limonene, il β-cariofillene ed il pinene.
Il risultato della combinazione fra tutte le sostanze contenute nella cannabis è chiamato effetto entourage; è dimostrato da numerosi studi scientifici che può modificare significativamente l’azione dei principali principi attivi, migliorandone l’azione e riducendo al minimo i possibili effetti collaterali. I primi studi risalgono al 1974, mentre le ricerche più recenti e accreditate sono dello studioso Ethan B. Russo. Alcuni terpeni ad esempio si legano con neurotrasmettitori come i recettori CB1 e CB2, influenzando diverse funzioni del nostro organismo e la sua risposta ad agenti esterni. Altri sembrano modificare la permeabilità delle cellule modulando, ad esempio, l’assimilazione del THC. Altri ancora interagiscono con il rilascio di dopamina e serotonina.
Se parliamo di infiorescenze e derivati il metodo ad oggi più utilizzato per l’assunzione di cannabis è quello della cartina, affiancato dall’utilizzo di vaporizzatori, che evitano i prodotti tossici derivati dalla combustione e permettono una maggiore assunzione dei principi attivi. Un altro metodo d’assunzione molto diffuso è quello edibile, utilizzabile sia per le infiorescenze che per semi e derivati dalla canapa con basso contenuto di Thc: dall’olio spremuto a freddo al latte passando per tutti i prodotti da forno che si possono ottenere con la farina di canapa. Ma funziona anche per prodotti farmaceutici come estratti, oli, spray e pillole o ad esempio per le tinture alcoliche.
Ci sono poi i prodotti ad uso topico come oli, lozioni, creme o ad esempio i cerotti a base di cannabinoidi, da applicare direttamente sulla pelle.
Poi, soprattutto per il mercato farmaceutico, le aziende stanno creando tutta una serie di prodotti che vanno dalle capsule vaginali alle gomme da masticare, passando per collirio, spray e gocce.
Medici e scienziati lo dicono da tempo: la cannabis è una sostanza naturale, notevolmente atossica e sicuramente meno dannosa di sostanze vendute legalmente come l’alcool. L’ennesima conferma scientifica è arrivata da uno studio pubblicato su Scientific Reports, che fa parte della rivista Nature, nel quale gli studiosi hanno calcolato che sia ben 114 volte meno letale dell’alcool. Per arrivare a questo risultato i ricercatori hanno analizzato il rischio di mortalità di diverse sostanze di uso comune per scoprire che, a livello di utilizzo individuale, l’alcool è al primo posto seguito da eroina, cocaina e tabacco.
Parlando di rischio di mortalità è d’obbligo sottolineare che nella storia millenaria dell’utilizzo di questa sostanza non è mai stato registrato nemmeno un singolo caso di morte causata dalla cannabis. Negli anni ’80 la Dea in vari esperimenti con cavie ha cercato di determinare il livello DL50 (Dose letale 50) della cannabis e cioè un parametro in uso fino aprimi anni del 2000 che indica la quantità di una sostanza (somministrata in una volta sola), in grado di uccidere il 50% di una popolazione campione di cavie. La conclusione fu che: “Al giorno d’oggi si stima che il livello di DL50 nella marijuana sia intorno ai 1:20.000 o 1:40.000. In parole povere significa che per morire, un fumatore dovrebbe consumare dalle 20.000 alle 40.000 volte il dosaggio normalmente contenuto in uno spinello. Dovrebbe quindi fumare circa 680 kg di marijuana in circa 15 minuti per avere un effetto letale”. Per fare un confronto: il livello LD-50 dell’aspirina è intorno ai 1:20, il che significa che stando a questi parametri, più volte ripresi da ricercatori, attivisti ed esperti, l’aspirina è almeno mille volte più letale della cannabis. Non solo, perché per la maggior parte dei farmaci da prescrizione il rapporto è di 1:10.
Detto questo bisogna sottolineare che c’è un dibattito scientifico aperto sui possibili danni che un uso cronico di cannabis ad alti livelli di THC potrebbe causare, soprattutto in età adolescenziale, quando cioè il cervello non è ancora del tutto formato. Altri effetti collaterali possono comprendere sonnolenza, tachicardia ed ansia.
DANNI POLMONARI. Nelle persone che fumano regolarmente cannabis si osservano più casi di bronchiti croniche e sintomi respiratori peggiori: smettere di fumare permette di invertire la rotta, riducendo queste condizioni. Secondo il dottor Donald Tashkin, che ha effettuato diversi studi scientifici sulla questione, “il peso accumulato dalle prove implica rischi molto più bassi di complicazioni polmonari da uso pesante, anche regolare, di marijuana, rispetto alle gravi conseguenze polmonari del tabacco”. Secondo le conclusioni il fumo di cannabis potrebbe essere associato a bronchite cronica, ma gli studi non confermano che sia associato allo sviluppo del cancro del polmone, malattia polmonare ostruttiva cronica (BPCO) o enfisema.
CANNABIS E CERVELLO. Nel 2015 al congresso annuale della American Association for the Advancement of Science (Aaas, organizzazione che pubblica la rivista Science) gli studiosi si sono fatti varie domande sulla cannabis, chiedendosi anche quali potrebbero essere i possibili danni associati al consumo. Secondo Igor Grant, psichiatra della University of California di San Diego, tra i pochi scienziati che ha portato avanti trial con questa sostanza in America a causa delle leggi restrittive: “Non esiste alcuna prova di danni a lungo termine negli adulti”. Grant ha poi spiegato che in passato si era parlato di un possibile legame tra l’uso di cannabis e un aumento di rischio di sviluppare schizofrenia, ma studi successivi non avrebbero confermato questi risultati. L’unico rischio conosciuto nell’adulto, spiega lo psichiatra, riguarda dunque la bronchite cronica. Differente invece la situazione tra i più giovani. Uno studio avrebbe infatti dimostrato che un forte utilizzo della sostanza nell’adolescenza sarebbe collegato ad un minore quoziente intellettivo in età adulta (studio poi “sbugiardato” dalla stessa rivista che aveva pubblicato il precedente per non aver controllato i fattori confondenti). Gli studi più recenti si starebbero concentrando invece sull’imaging del cervello degli adolescenti, per scoprire in che modo la sostanza modifichi l’attività cerebrale di un sistema nervoso ancora in formazione e come incida sulla memoria a breve termine, sulla capacità di apprendimento o su problemi come la sindrome amotivazionale. Si tratta però di ricerche ancora nelle prime fasi, e, come spiega Grant: “Le evidenze raccolte al momento sono ancora estremamente deboli”. In un recente studio eseguito sui topi, è stato addirittura evidenziato come piccole dosi di THC potrebbero rallentare il declino cognitivo negli anziani. Nei topi giovani, invece, la somministrazione di THC ha compromesso le prestazioni di apprendimento e memoria.
PER APPROFONDIRE:
La cannabis non fa diventare stupidi: smentito lo studio che ha fatto il giro del mondo
Cannabis ed intelligenza: quali sono gli effetti del consumo?
Cannabis e cervello: il dibattito scientifico sugli effetti del consumo
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ANSIA. Il rapporto tra cannabis e ansia è complicato. Per alcune persone fumare porta a liberarsi da ansie, preoccupazioni e paure, generando fiducia e buon umore, in altre può provocare reazioni di tipo opposto, da lievi preoccupazioni a stati di negatività, fino a sfociare, in casi rari ma possibili, in veri e propri attacchi di paranoia. Mentre l’ansia è senza dubbio un fenomeno ricco di sfumature e strettamente connesso alla soggettività di ogni individuo, i ricercatori hanno però notato come i consumatori regolari di cannabis tendono a percepire una diminuzione dell’ansia, mentre gli utenti occasionali e quelli alle prime esperienze hanno maggiori possibilità di andare incontro a stati ansiogeni. Secondo una ricerca del 2009, inoltre, i fumatori assidui (o smodati) tendono a sviluppare condizioni ansiogene che si manifestano anche una volta cessato l’effetto della cannabis. Sostanzialmente, secondo questa ricerca un uso “regolare” è utile per controllare l’ansia, mentre un uso “smodato” può al contrario favorirne l’insorgenza o l’aggravarsi. Secondo una ricerca pubblicata su Leaf Science THC e CBD possono avere sull’ansia effetti opposti. Il THC è il principio attivo responsabile degli effetti psicotropi della cannabis e un suo abuso può alimentare stati di ansia o paranoia, appunto a causa della sua influenza sull’amigdala. Il CBD, all’opposto, agisce contrastando gli effetti del THC che alterano la mente. Al punto che alcuni studi hanno dimostrato che, se assunto da solo, può essere considerato un medicinale benefico contro l’ansia.
NOTA FINALE. Per concludere bisogna sottolineare che ci sono rischi associati a quasi tutto ciò che introduciamo nel nostro corpo. Troppo zucchero alla lunga può significare carie e diabete o assumere troppo sale nel tempo aumenta le probabilità di ictus. Le sostanze psicoattive non sono affatto le uniche ad avere rischi associati all’assunzione e la nostra linea è contro l’abuso e per un utilizzo responsabile (e questo comprende anche il consumo di cannabis dopo l’età adolescenziale).
La storia del proibizionismo insegna che la canapa è stata vietata perché i prodotti che se ne possono ricavare insidiavano molti settori dell’industria farmaceutica e del mercato nascente dei derivati del petrolio. Se la canapa fosse stata usata come una risorsa, invece che essere dipinta come una minaccia per tutelare gli interessi economici di pochi, ad oggi non conosceremmo ad esempio la plastica altamente inquinante, i combustibili fossili ed il nylon, tutti derivati dal petrolio; la deforestazione sarebbe un problema più contenuto, l’edilizia tradizionale non sarebbe tra i principali inquinanti del pianeta e dalla coibentazione ed isolamento degli edifici non dipenderebbe uno dei più grandi problemi attuali di gestione dell’energia. Solo seguendo l’esempio di Henry Ford, ad oggi le automobili potrebbero essere tutte con una scocca fatta di materie biodegradabili ed alimentate ad esempio da etanolo di canapa.
Coltivare cannabis con quantità di Thc superiori allo 0,6% in Italia costituisce un reato penale. La sua coltivazione, anche a solo scopo di consumo personale, è infatti punita dall’articolo 73 del DPR. 309/90, con pene comprese tra 2 a 6 anni di carcere.
Negli ultimi anni diversi giudici hanno espresso sentenze in controtendenza, promuovendo un’interpretazione meno rigida della norma. Per questo diversi imputati, generalmente finiti a processo per la coltivazione di poche piante in ambito casalingo, sono stati assolti.
Tuttavia altri giudici continuano invece a interpretare la legge in modo rigoroso, optando per la condanna della condotta anche quando a scopo evidentemente di solo uso personale. Nel marzo 2016 la questione è stata dibattuta dalla Corte Costituzionale, la quale ha stabilito che la coltivazione rimane un reato in ogni caso.
Coltivazione indoor e outdoor, ovvero “dentro” o “fuori” la porta (di casa). Si tratta delle due metodologie nelle quali si può coltivare la cannabis. La coltivazione outdoor è quella classica, propria della natura e sempre valida. Quella indoor nasce come effetto collaterale del proibizionismo, permettendo di tenere la pianta vietata al riparo da occhi indiscreti, ma oggi rimane diffusa anche laddove la coltivazione è diventata legale.
La coltivazione al chiuso, infatti, presenta alcune caratteristiche peculiari che la rendono a molti preferibile, a cominciare dalla comodità: non dipende dalle stagioni, assicura più raccolti in un anno, permette di controllare totalmente le condizioni ambientali di crescita. Inoltre consente di preservare la genetica del seme, mentre una coltivazione all’aperto è esposta alla possibile “contaminazione” dei pollini portati dal vento.
Nonostante questo molti coltivatori continuano a preferire la coltivazione outdoor, che pur tra maggiori difficoltà, gantisce una maggiore naturalità alla canapa. (per approfondire clicca qui)
A differenza della coltivazione, la semplice detenzione di cannabis al solo scopo di consumo personale in Italia è stata depenalizzata grazie al referendum promosso da Marco Pannella nel 1993. Da allora il possesso di cannabis non è più considerato un reato penale.
Nonostante questo non si deve fare lo sbaglio di credere che qualche grammo di cannabis possa essere posseduto senza rischi. Infatti, la detenzione (e il consumo) di cannabis costituisce un reato amministrativo, i cui confini sono stabiliti dall’art. 75 del DPR 309/90.
In pratica chi detiene modeste quantità di cannabis non rischia il carcere, ma va incontro a sanzioni comunque pesanti che possono comprendere: sospensione della patente, sospensione della licenza di porto d’armi, sospensione del passaporto e di ogni altro documento equipollente, sospensione del permesso di soggiorno per motivi di turismo e il divieto di conseguirlo se cittadino extracomunitario. In tale contesto il Prefetto può anche formulare l’invito a seguire un programma terapeutico personalizzato presso un’apposita struttura.
Il limite al di sotto del quale la detenzione di cannabis viene sempre considerata per esclusivo consumo personale è fissato in 500mg di principio attivo Thc. Quindi nel caso, ad esempio, di cannabis al 10% di Thc è fissato in 5 grammi di infiorescenze. Sopra questa soglia si incorre nell’incriminazione per detenzione ai fini di spaccio (le cui pene sono stabilite dall’art. 73, sopra citato).
I semi di cannabis sono esclusi dalla nozione legale di cannabis, ciò significa che essi non sono da considerarsi sostanza stupefacente (L. 412 del 1974, art. 1, comma 1, lett. B; Convenzione unica sugli stupefacenti di New York del 1961 e tabella II del decreto ministeriale 27/7/1992).
Ma la loro coltivazione è vietata, pertanto tali semi potranno essere utilizzati esclusivamente per fini collezionistici e per la preservazione genetica. Questi semi sono commercializzati con la riserva che essi non siano usati da terze parti in conflitto con la legge.
Dipende dai metodi di controllo utilizzati. Nel test delle urine il Thc rimane rintracciabile per qualche giorno nel caso dei consumatori saltuari e fino ad un mese per quanto riguarda i consumatori più assidui. Di norma, per essere certi di risultare negativi al test, si consiglia un’astensione totale dal consumo per un mese. In alternativa esistono vari metodi per velocizzarne lo smaltimento (consultabili a questo link), ma si tratta di rimedi casalinghi, il cui funzionamento non è assicurato.
L’esame del capello è il più insidioso tra i metodi utilizzati. Tramite esso è teoricamente possibile individuare consumi fino a un anno di distanza, anche se di solito i test riguardano solo i tre mesi precedenti (per approfondire: clicca qui). I test della saliva sono invece quelli nei quali la cannabis rimane rintracciabile per meno tempo. il THC rimane rintracciabile per un massimo di 14 ore, ma la media non supera le 6/7 ore.
La norma sulla guida sotto effetto di cannabis è chiara. La legge stabilisce che è reato guidare sotto effetto di sostanze stupefacenti. Ma il caso delle sanzioni alla guida rappresenta ad oggi uno dei maggiori punti oscuri per quanto concerne la sua applicazione.
Seppur sia sanzionato con la sospensione della patente la sola guida al momento in cui si è effettivamente sotto effetto della cannabis, nessuno degli strumenti attualmente adottati dalle forze dell’ordine per verificarne il consumo (test del sangue, delle urine e tampone salivare) è in grado di provare l’effettiva positività al momento del controllo. Questo comporta che migliaia di persone si siano viste sospendere la patente per aver fumato cannabis anche diversi giorni, o settimane, prima di mettersi alla guida.
Nel caso vogliate approfondire il tema e sapere come conviene comportarsi in caso di positività ai controlli vi consigliamo di consultare questo articolo.
Mentre si moltiplicano i prodotti a base di CBD puro, dalle gomme da masticare al latte con aggiunta di CBD, passando per ovuli vaginali, collirio e cerotti transdermici, anche le principali seedbank europee ed americane, hanno iniziato a produrre genetiche di cannabis con un alto contenuto di questo cannabinoide, o hanno creato delle nuove versioni delle varietà presenti nel proprio catalogo, con un contenuto di CBD più alto.
Oggi, con la comparsa di queste nuove genetiche che spesso hanno contenuti di THC molto bassi, e complice la prima legge italiana che disciplina la canapa industriale, sono molti i lettori che ci chiedono se sia legale coltivare varietà di cannabis che abbiano un contenuto di THC sotto il limite previsto dalla legge sulla canapa industriale, e cioè lo 0,2%.
La risposta è no, perché la legge sulla canapa industriale prevede che sia legale coltivare varietà che siano state registrate a livello europeo e prevede inoltre che il coltivatore conservi le fatture di acquisto ed il cartellino della semente acquistata per un periodo non inferiore ai 12 mesi.
Per spiegarvi i motivi abbiamo contattato il dottor Giampaolo Grassi, primo ricercatore del CREA-CIn di Rovigo: “In Italia non si può, perché se non hai il cartellino è come se stessi coltivando della canapa illegale”, puntualizza spiegando che: “Il cartellino è quello che determina la liceità della coltivazione e per avere il cartellino la genetica deve essere stata registrata”. Quindi bisognerebbe che le seedbank interessare procedessero con la registrazione delle proprie genetiche. Alla domanda se sia un procedimento costoso Grassi sottolinea che: “Costa mediamente sui 5mila euro, ma il problema è arrivare in fondo alla procedura che va fatta da aziende strutturate o da istituti di ricerca pubblici; per un privato, anche dal punto di vista normativo, sarebbe complicato perché di solito sono aziende sementiere, iscritte ad un registro, che lo fanno di professione. E’ vero che chiunque può registrarsi, ma di solito sono aziende strutturate: certamente le seedbank olandesi o spagnole, ad esempio, se lo potrebbero permettere, ma non il singolo cittadino perché non è una cosa così semplice”.
Quando si parla di cannabis medica o terapeutica si intende la cannabis nel suo utilizzo dal punto di vista medico. La cannabis contiene infatti numerosi principi attivi, tra i quali i più importanti sono i cannabinoidi e ad oggi ne sono identificati oltre 100, che hanno diverse proprietà terapeutiche. Il nostro stesso organismo produce diversi endocannabinoidi, che si legano ai loro recettori, attivandoli. Si stratta del nostro sistema endocannabinoide che è è un complesso sistema endogeno di comunicazione tra cellule.
Il sistema endocannabinoide è composto da recettori cannabinoidi, i loro ligandi endogeni (gli endocannabinoidi) e le proteine coinvolte nel metabolismo e nel trasporto degli endocannabinoidi. Questo sistema è di grande importanza per il normale funzionamento dell’organismo. Il nome è dovuto al fatto che alcuni fitocannabinoidi (i cannabinoidi presenti nella cannabis), mimano gli effetti degli endocannabinoidi legandosi ai medesimi recettori.
In termini generali il sistema enndocannabinoide è coinvolto in molteplici processi fisiologici, tra i quali il controllo motorio, la memoria e l’apprendimento, la percezione del dolore e dello stress, la regolazione dell’equilibrio energetico, le risposte immunitarie e in comportamenti come l’assunzione di cibo. Altre funzioni del sistema endocannabinoide potrebbero essere correlate alle funzioni endocrine, alle risposte vascolari, alla modulazione del sistema immunitario e alla neuroprotezione. Infine sarebbe in grado anche di esercitare azioni anti-proliferative.
PER APPROFONDIRE:
Introduzione al sistema endocannabinoide
Sistema endocannabinoide: i cannabinoidi ed i loro recettori
Sistema endocannabinoide: gli endocannabinoidi e le loro prospettive terapeutiche
A livello medico la cannabis in Italia può essere prescritta, grazie alla legge Di Bella del 1998, per qualsiasi patologia per la quale siano stati pubblicati studi scientifici su riviste accreditate. Le patologie per cuI viene maggiormente prescritta sono il trattamento del dolore cronico e neuropatico, il trattamento di sclerosi multipla e SLA, effetto stimolante dell’appetito nella cachessia, anoressia, perdita dell’appetito in pazienti oncologici o affetti da Aids. Studi recenti dimostrano ad esempio la validità della cannabis anche nel trattamento sintomatico del Parkinson, dell’Alzheimer o del morbo di Crohn, ma sono davvero molte le patologie sulle quali la ricerca moderna si sta focalizzando. Ad esempio la cannabis ad alto contenuto di CBD è al centro di diversi studi clinici per il suo potenziale anticovulsivante nel trattamento di forme di epilessia resistente ai farmaci convenzionali, soprattutto in ambito pediatrico.
La cannabis si acquista nelle farmacie galeniche che effettuano questo tipo di preparazione. Le varietà che importiamo dall’Olanda (Bedrocan, Bediol, Bedica, Bedrolite, Bedrobinol) si trovano ad un prezzo che varia tra i 18 ed i 20 euro al grammo, la varietà italiana FM2 ad un prezzo intorno ai 15 euro. Alcune regioni italiane, come Liguria, Toscana e Puglia, si sono dotate di una legge che permette la prescrizione a carico del servizio sanitario regionale, ma solo per le patologie indicate dalla legge stessa, ed in genere solo dopo che le terapie convenzionali non abbiano funzionato. Per tutti gli altri la cannabis resta a pagamento ed il costo della terapia dipende dal piano terapeutico indicato dal medico.
Sì, è del tutto legale: nel nostro Paese la coltivazione di canapa industriale non è mai stata espressamente vietata e nel 2016 è stata approvata la prima legge (entrata in vigore nel gennaio 2017) che regola il settore della canapa industriale italiana. In Italia è dunque del tutto legale coltivare varietà di canapa industriale registrate a livello europeo. (Consulta la tabella delle varietà registrate in Europa QUI. Clicca su “Agricultural plant species”, poi dai la spunta a “Varietes”, seleziona la “A – 63 Hemp – Cannabis Sativa” e clicca su “Search”).
Non è più necessaria alcuna autorizzazione per la semina di varietà di canapa certificate, gli unici obblighi per il coltivatore sono quello di conservare i cartellini della semente acquistata per un periodo non inferiore a dodici mesi e di conservare le fatture di acquisto della semente per il periodo previsto dalla normativa vigente. La percentuale di THC nelle piante analizzate potrà oscillare dallo 0,2% allo 0,6% senza comportare alcun problema per l’agricoltore. Gli eventuali controlli verranno eseguiti da un soggetto unico e sempre in presenza del coltivatore, e gli addetti al controllo sono tenuti a rilasciare un campione prelevato per eventuali contro-verifiche. Nel caso in cui la percentuale di THC dovesse superare la soglia dello 0,6%, l’autorità giudiziaria può disporre il sequestro o la distruzione della coltivazione, ma anche in questo caso “è esclusa la responsabilità dell’agricoltore”.
DOVE POSSO TROVARE I SEMI? Come detto i semi devono essere varietà certificate che abbiano al massimo lo 0,2% di THC (anche se il limite in Italia è stato spostato allo 0,6%). Attualmente come varietà italiane sarebbero disponibili la Carmagnola, la Fibranova e l’Eletta Campana, ma non vengono prodotti semi a sufficienza per soddisfare tutte le richieste. A questo proposito è però possibile importare semi dalla Francia, dalla Germania o dall’est Europa (Ucraina e Ungheria principalmente). Il consiglio è quello di appoggiarsi ad un’associazione sia per l’acquisto dei semi, sia in caso di bisogno d’aiuto o richieste di informazioni tecniche e specifiche. (QUI una presentazione delle principali associazioni italiane che si occupano di canapa industriale). In alternativa su Facebook è attivo il gruppo Canapa Sativa Italia nel quale spesso diversi coltivatori si uniscono per acquistare insieme i semi ed abbattere i costi.
La canapa, oltre alla possibilità di creare decine e decine di prodotti eco-compatibili, è una delle migliori armi che abbiamo per combattere l’inquinamento e ridurre gli effetti devastanti dell’uomo sul clima. Innanzitutto è considerata come il “maiale vegetale” perché è una pianta che può essere utilizzata in tutte le sue parti.
In fase di crescita la canapa cattura 4 volte la CO2 immagazzinata mediamente dagli alberi e utilizzata in edilizia mantiene le stesse proprietà. È stato calcolato infatti che l’edilizia tradizionale incide per il 30/40% sulle emissioni di CO2. Tutta la filiera di produzione di canapa e calce è carbon negative, cioè toglie più CO2 dall’ambiente di quanta ne verrebbe immessa lavorandola, al contrario della lavorazione di materiali tradizionali come il cemento: si stima che una tonnellata di canapa secca possa sequestrare 325 kg di CO2. Inoltre i prodotti in canapa e calce grazie alle loro proprietà fanno abbassare consumi energetici e bollette.
La canapa può essere trasformata in una vasta gamma di fonti di energia da biomassa, dal pellet ai combustibili liquidi e a gas, senza pensare ai risvolti ambientali che avrebbe una produzione di plastica di canapa completamente biodegradabile. Fare carta con la canapa porterebbe vantaggi ambientali ed aiuterebbe ad invertire il fenomeno della deforestazione.
Coltivando canapa si attiva inoltre un processo di fitobonifica, miglioramento della fertilità dei suoli, azione di contrasto alla deforestazione e desertificazione e un’importante azione di cattura e sequestro di anidride carbonica.
C’è chi dice 1000, chi 25mila e chi oltre 50mila. Quello che è sicuro è che gli utilizzi della pianta di canapa sono davvero tanti e si incrociano tra prodotti della tradizione e nuovi studi che solo le moderne tecnologie permettono.
I principali utilizzi sono quelli nel settore alimentare, nella produzione di carta, nella bioedilizia, nella produzione di bioplastiche, biocarburanti, tessuti e nella cosmetica. La filiera della canapa non produce rifiuti realmente inquinanti o difficili da smaltire, e non causa danni ecologici, apportando contemporaneamente un miglioramento all’ambiente in cui viene coltivata.
Grazie ai materiali da costruzione naturali si può sviluppare una nuova edilizia, più in sintonia con l’uomo e attenta all’ambiente.
Il canapulo è la parte legnosa dello stelo della canapa. Unita ad acqua e calce, crea un materiale naturale che può essere usato in bioedilizia: dal bio-mattone alla miscela per lo riempimento delle pareti, passando per massetti, isolanti per tetto e il pavimento, intonaco grosso e quello di finitura. Come materiale ha cominciato a diffondersi nell’edilizia nei primi anni ’90 e si presta a diverse applicazioni: domestiche, commerciali e industriali. Le proprietà di questo materiale rendono gli ambienti più salubri e naturali
e aumentano l’efficienza energetica facendo abbassare le bollette.
Il bio-composito elimina infatti ogni forma di ponte termico isolando completamente la struttura e le costruzioni in canapa e calce hanno dimostrato di essere a tenuta d’aria, evitando così ogni perdita di calore dall’interno. Inoltre, grazie alla capacità del canapulo di assorbire elevate quantità di vapore acqueo, i muri ed i pavimenti di un edificio a canapa e calce possono “respirare” assorbendo l’umidità e successivamente rilasciandola attraverso l’evaporazione. Questa caratteristica evita lo sviluppo di umidità ed il relativo deterioramento all’interno del materiale, e favorisce la riduzione del livello di umidità all’interno dell’edificio. L’effetto complessivo è un ambiente più salubre e naturale, che necessità di un minore utilizzo di riscaldamento in inverno e di raffreddamento in estate, abbattendo in questo modo le bollette energetiche. Ha inoltre ottime capacità per quanto riguarda l’isolamento acustico, di resistenza agli incendi senza l’aggiunta di sostanze tossiche ritardanti di fiamma e di protezione dalle infestazioni.
Parlando di bioedilizia si potrebbe ricordare come l’edilizia tradizionale incida per il 30/40% sulle emissioni totali di CO2 e come invece tutta la filiera di produzione di calce e canapa sia carbon negative, cioè tolga più CO2 dall’ambiente di quanta ne verrebbe immessa lavorandola. Si stima che una tonnellata di canapa secca possa sequestrare 325 kg di CO2. L’università di Bath ha calcolato che al netto delle emissioni di trasporto e lavorazione, un metro quadro di muratura in canapa e calce ha sequestrato 35 chilogrammi di CO2.
Infine va ricordato che si tratta di materiali bio-degradabili, che, alla fine del loro utilizzo, possono essere riutilizzati semplicemente re-impastandoli per ricreare la giusta miscela.
A partire dalla canapa è possibile produrre una bioplastica, del tutto naturale, biodegradabile e compostabile che potrebbe competere con il prezzo dei materiali derivati dal petrolio ad oggi utilizzati, ma che avrebbe migliori caratteristiche di resistenza e leggerezza. Esistono già diverse bio-plastiche realizzate con cellulosa e fibre di canapa che possono costituire dal 50 al 100% del materiale.
L’industria automobilistica è uno dei principali utilizzatori di questo prodotto, che permette di realizzare automobili più leggere e prestanti, ma anche il settore degli imballaggi, ad esempio, sta prestando molta attenzione a questo tipo di materiali. In Cina, attualmente uno dei più grandi produttori di bioplastica di canapa, vengono già prodotti oggetti di uso quotidiano come ad esempio le custodie dei cellulari mentre altri ambiti applicativi spaziano dall’arredamento all’elettronica di consumo, passando per cosmetica e giocattoli, dove la canapa ha il grande vantaggio, rispetto alla plastica, di essere completamente atossica. Altro settore in grande espansione è quello della stampa 3D, dove sono stati presentati i primi filamenti a base di canapa per questo tipo di stampa. La canapa è in grado di integrare o sostituire materiali plastici di nuova generazione come il PLA (acido polilattico), il PHA e il PBS, polimeri derivati da mais, grano o barbabietola e utilizzati per la produzione di plastiche biodegradabili e compostabili.
Un recente rapporto del World Economic Forum (WEF) spiega che attualmente ci sono 150 milioni di tonnellate di plastica negli oceani, andando avanti senza modificare i modelli produttivi attuali nel 2025 per ogni tre tonnellate di pesci vi sarà una tonnellata di plastica. Entro il 2050, invece, la plastica avrà superato in peso la fauna marina.
Con il termine biomassa, dal punto di vista energetico, intendiamo tutte le sostanze di origine biologica in forma non fossile che possono essere sfruttate come fonti di energia. Oltre che come bioplastica, la canapa può essere infatti utilizzata come biocarburante, una fonte sostenibile e naturale di combustibile. La famosa Hemp Body Car creata da Henry Ford nel 1941 era infatti un’automobile con la scocca realizzata in bio-plastica di canapa ed alimentata ad etanolo ottenuto sempre da questa pianta. Secondo il Dipartimento dell’Energia degli Stati Uniti la canapa è il produttore di combustibile da bio-massa che richiede meno specializzazione sia nella coltivazione, sia nella trasformazione di tutti i prodotti vegetali. Gli idrocarburi in canapa possono essere trasformati in una vasta gamma di fonti di energia da biomassa, dal pellet ai combustibili liquidi e a gas. Ovviamente lo sviluppo dei bio-carburanti potrebbe ridurre significativamente il nostro consumo di combustibili fossili e l’utilizzo di energia nucleare. La canapa può fornire due tipi di carburante: bio-diesel, ottenuto a partire dall’olio che si ricava dalla spremitura di semi di canapa ed etanolo o metanolo ottenuto dalla fermentazione dello stelo. L’idea di utilizzare olio vegetale come combustibile risale al 1895 quando il dottor Rudolph Diesel presentò il suo motore all’Esposizione Mondiale di Parigi nel 1900; questo primo esempio utilizzava come combustibile l’olio di arachidi.
Il bio-diesel è l’unico carburante alternativo che rispetta i principi di combustione convenzionali, non sono infatti necessarie modifiche agli attuali mezzi di circolazione; può essere utilizzato ed immagazzinato come il petrolio, ma è più sicuro da trasportare in quanto è interamente biodegradabile. È un carburante ampiamente testato con più di 20 anni di utilizzo in Europa. È in grado di prolungare la vita dei motori diesel, perché è più lubrificante e migliora anche il consumo di carburante, la potenza di uscita e la coppia del motore. Studi della University of Connecticut (condotti nel 2010 dal team del prof. Richard Parnas) ne hanno, inoltre, mostrato l’elevato efficiente di conversione (il 97% dell’olio di canapa è, infatti, trasformato in biocarburante) e la possibilità di impiegarlo a temperature più basse rispetto agli altri biodiesel in commercio.
Il tessuto per abbigliamento, arredamento, corde e tappeti, si ricava dalla fibra lunga della pianta di canapa. Quella che ci aveva reso primi al mondo per qualità della nostra canapa, era proprio la fibra, dalla quale si ottenevano ad esempio corde e vele per le navi, ma anche corredi per le spose, biancheria, tende e rivestimenti per materassi e poltrone. La stessa fibra tessile che in passato era considerata “l’oro verde“: un prodotto dal forte valore aggiunto lavorato in modo artigianale, che garantiva la maggior parte degli introiti di chi lavorava la canapa. La successiva diminuzione delle coltivazioni ha purtroppo impedito, tra le altre cose, anche il passaggio da una lavorazione artigianale a quella industriale meccanizzando i processi di lavorazione come la macerazione o la pettinatura successiva. Il risultato è che oggi in Italia, non c’è la possibilità di produrre tessuto di canapa e quello a disposizione viene importato dall’estero, soprattutto Cina ed Europa dell’est. Se pensiamo che il cotone è una delle colture più inquinanti del pianeta, mentre la canapa non necessita quasi mai di diserbanti o fitofarmaci, avremmo una ragione in più per andare in questa direzione, nonostante sia un investimento non indifferente. Immaginiamo però il valore che potrebbe avere una canapa made in Italy, coltivata con nostre genetiche, che dia vita a capi di vestiario fatti in Italia.
Come tessuto, grazie alla sua fibra cava, la canapa rimane fresca in estate e calda in inverno. Ha proprietà antibatteriche e antifungine ed è in grado di assorbire l’umidità del corpo tenendolo asciutto; inoltre assorbe i raggi infrarossi e gli UVA fino al 95%. La resistenza agli strappi è tre volte maggiore a quella del cotone e tra le fibre naturali è quella che meglio resiste all’usura.
L’uso della fibra di canapa per produrre carta risale a più di 2mila anni fa anche se attualmente, solo il 5% della carta mondiale viene fatta da piante annuali come la canapa o il lino. Ma agli albori della stampa la carta ricavata dalla canapa ebbe un ruolo preminente: le prime copie della Bibbia stampata da Gutenberg furono prodotte con questo tipo di carta così come la bozza della dichiarazione d’indipendenza americana. Ma anche le opere dei grandi pittori, come ad esempio molte di quelle di Van Gogh, furono realizzate su tele di canapa. Fare la carta con la fibra e il legno della canapa comporta importanti vantaggi: sia per la sua enorme produttività in cellulosa (la canapa secca contiene almeno il 60% di cellulosa invece del 40/50% del legno ed è una pianta annuale, al contrario di alberi che crescono in decenni), sia per la bassa percentuale di lignina. Inoltre la fibra e il legno della canapa sono già di colore bianco e la carta che se ne ottiene è già stampabile, mentre i composti chimici utilizzati per sbiancare e trattare la carta ottenuta della fibra di legno, sono dannosi. La possibilità della canapa nasce quindi da un forte motivo ambientale, oggi che tutte le foreste primarie d’Europa, e la maggior parte di quelle americane, sono state distrutte anche per produrre la carta. Secondo un articolo scritto da Van Roekel nel 1994 per l’IHA (International Hemp Association), prima della riscoperta europea della canapa industriale negli anni ’90, la fibra di canapa allora prodotta era usata al 95% per carta e prodotti derivati. Ma a causa dell’alto prezzo della polpa di canapa, allora 5 volte più alto di quella di legno, le applicazioni erano limitate a filtri tecnici, banconote, e carta per produrre le sigarette industriali, unico vero mercato per la polpa di canapa. Più del 90% della polpa di canapa, mescolata con pasta di lino, è assorbita da questo mercato, rimasto relativamente stabile nel corso degli ultimi decenni. Quando l’euro è stato introdotto nel 2002 abbiamo perso una grande opportunità: invece che usare cellulosa di cotone proveniente dagli Stati Uniti, avremmo potuto utilizzare lino e polpa di canapa europei per produrre le banconote: sarebbe stato più rispettoso dell’ambiente e avrebbe portato grandi benefici alla nostra economia.
Un growshop è un negozio specializzato in articoli e attrezzature per la coltivazione e il giardinaggio con un occhio di riguardo al mondo della canapa.
Tra questi ci sono gli headshop (vendita di articoli per fumatori, ovvero accendini, posaceneri, cartine, cilum, narghilè, bong e vaporizzatori), gli hempshop (vendita di articoli e prodotti riguardanti la canapa o derivati-realizzati con la stessa (abbigliamento, cosmetica, alimenti, libri, riviste, dvd, ecc), gli smartshop (vendita di sostanze psicoattive legali come integratori o composti di origine naturale e sintetica) e i seedshop (vendita di semi di cannabis).
Spesso un growshop è tutto questo e molto altro: punti di riferimento per gli amanti della canapa, info point e angoli degustazioni di prodotti alimentari.
In Italia oggi ce ne sono oltre 300. L’elenco completo e aggiornato è disponibile nella nostra guida growshop Magica Italia.
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