In Messico la guerra alla droga è una carneficina, ma fa comodo a tutti
La politica della war on drugs che da 50 anni guida le direttive dell’Onu viene oggi finalmente messa in discussione e giudicata, da ex presidenti e segretari delle Nazioni Unite come Kofi Annan, come un totale “fallimento che ha comportato costi enormi per le società e la salute pubblica”. Il paese dove più che in ogni altro l’ideologia della guerra ad ogni tipo di droga ha portato i maggiori danni è sicuramente il Messico. Stato dove dal 2006 ad oggi non si contano le morti causate dalle guerre tra i vari cartelli della droga o tra di essi e lo stato. Secondo i rapporti di Human Rights Watch (HRW) sono almeno 70mila le persone ad aver perso la vita, ma le stime più alte parlano di 120mila morti. Tra di loro non solo criminali e poliziotti, ma molto spesso civili con l’unico torto di essersi trovati in mezzo ad una sparatoria o ad un blitz delle forze di sicurezza.
UNO STATO IN BALIA DEL SUO STESSO FALLIMENTO. Secondo il rapporto di Human Rights Watch il fallimento della war on drugs messicana non si limita all’enorme numero di morti. Ma ha prodotto un sistema di sicurezza e giudiziario corrotto, violento ed inaffidabile. Per contrastare cartelli della droga sempre più potenti e tecnologici dal punto di vista militare il governo negli anni della presidenza di Felipe Calderon (2006-2012) ha dato carta bianca ai militari. Il risultato è stato il consolidamento di un sistema di abusi di potere, torture, e sparizioni che ormai ha contagiato tutte le regioni dello stato. Si parla di almeno 26mila individui scomparsi nel nulla (di cui spesso sono responsabili gruppi militari e paramilitari), di resti umani trovati in fosse comuni, di casi di tortura che diventano prassi e contro i quali non esiste un solo caso di condanna penale dei responsabili. Di un sistema giudiziario che in oltre il 90% dei casi non riesce a fare luce su nessun caso di omicidio, rapimento o tortura, non solo in quanto mal strutturato e finanziato per l’enorme compito che gli spetta, ma soprattutto, sempre secondo il rapporto di HRW, a causa della “corruzione e della complicità di molti giudici”.
LA NECESSITA’ DI UNA SVOLTA CHE TARDA AD ARRIVARE. Questa tattica fatta di militarizzazione del territorio, violenza e torture, oltretutto, non ha minimamente indebolito i cartelli della droga ma ha solo reso maggiormente insicuri i quartieri delle città messicane. Al punto che in molti di essi i cittadini ora si autorganizzano in milizie di difesa armata, per proteggersi sia dalle violenze dei cartelli criminali, sia dagli abusi della polizia e dei gruppi paramilitari. Un fallimento sotto ogni punto di vista insomma, tanto da aver spinto la “Commissione latino-americana sulla droga e sulla democrazia”, presieduta dall’ex presidente del Brasile Henrique Cardoso, ad affermare quanto segue: “i paesi coinvolti in questa guerra dovrebbero rimuovere i tabù e riesaminare i loro programmi anti-droga. I governi latino-americani hanno seguito i consigli degli Stati Uniti per combattere la guerra alla droga, ma la strategia politica ha avuto poco effetto. La commissione ha fatto alcune raccomandazioni al presidente Barack Obama affinché prenda in considerazione nuove politiche, come la depenalizzazione della cannabis e il trattamento dell’utilizzo di droga come un problema di salute pubblica e non come un problema di sicurezza”.
UN SISTEMA CHE FA COMODO A TUTTI? Non è certo un caso che le raccomandazioni della Commissione siano innanzitutto dirette a Barack Obama. Sono proprio gli Usa, infatti, ad aver studiato, finanziato ed imposto agli alleati messicani la “war on drugs”. Ed ogni anno miliardi di dollari di finanziamenti americani arrivano nelle casse del governo messicano proprio per questo fine. Come in tutti i conflitti la guerra ha creato anche un proprio indotto economico che fa comodo a tanti: ai cartelli della droga che continuano ad arricchirsi (ben sapendo che la legalizzazione del consumo con vendita da parte dello stato rappresenterebbe la fine del loro potere), ai militari messicani che hanno visto aumentare a dismisura il loro potere, a poliziotti e giudici corrotti, ma anche ai governi di Messico e Usa che ogni anno beneficiano indirettamente dei proventi del narcotraffico. Secondo un’inchiesta del Washington Post ogni anno i cartelli della droga messicana immettono nel mercato statunitense tra i 18 e i 39 miliardi di dollari in contanti: proventi del crimine che vengono riciclati all’interno del mercato americano. Lo stesso avviene all’interno di quello messicano. Sarà per questo che il presidente messicano Enrique Peña Nieto appena 10 giorni fa ha ribadito di essere contrario alla legalizzazione di ogni tipo di droga?