Il vissuto della canapa nella Terra di Lavoro: un passato senza alcuna speranza di ritorno?
All’ingresso di Frattamaggiore – cittadina dell’hinterland napoletano che conta circa 30mila abitanti su un’estensione territoriale di 5 km quadrati – da non molti anni è comparso un cartello stradale con la dicitura “città della canapa”. Lungo le vie del paese, diroccate architetture industriali traspirano la memoria della cultura canapiera, segnata dalle alte ciminiere degli stabilimenti tessili e dagli scheletri dei vecchi canapifici, oggi abbandonati o riadattati a più moderne esigenze urbane. Al centro di una piazza si erge la statua di una lavoratrice canapina, figura simbolo di un’epoca in cui gli oltre 50 canapifici frattesi davano occupazione a più di 1.500 persone, tra cui soprattutto donne.
Nella prima metà del Novecento Frattamaggiore è stata una capitale della canapa. Le zone bagnate dal fiume Clanio offrivano qualità del terreno particolarmente adatte a ottenere un prodotto pregiato, attorno al quale si sviluppava gran parte dell’economia dei Comuni limitrofi. Il mercato della canapa tessile dei Regi Lagni vantava origini antichissime: leggenda narra che i canapieri di Frattamaggiore fornirono le corde per le caravelle di Cristoforo Colombo. Le attività canapiere erano trainate da una élite di aziende a conduzione familiare, ma il ciclo produttivo coinvolgeva un’enorme fetta di popolazione, tanto invisibile quanto indispensabile. Le classi lavoratrici erano formate da masse di pettinatrici, funai, stuppaiuoli (che battevano la canapa macerata per renderla più morbida), sensali (coloro che acquistavano nelle campagne la canapa per conto di artigiani e industriali) e persino contrabbandieri.
Il contrabbando divenne un’attività usuale nel Dopoguerra, dopo la creazione del Consorzio Nazionale della Canapa e la previsione dell’ammasso obbligatorio: tutta la canapa prodotta doveva essere ammassata nel Consorzio, che calmierava i prezzi e rivendeva ai trasformatori. L’ente ricalcava le strutture protezionistiche risalenti alle politiche corporative fasciste. L’anacronismo di questo sistema danneggiò notevolmente gli imprenditori locali, provocando gradatamente il calo delle produzioni fino alla scomparsa totale delle coltivazioni, accelerata dal sovrapporsi delle leggi proibizioniste che cominciavano a considerare la pianta di canapa sostanza stupefacente.
Il Consorzio fu superato nel tempo, sia sul piano economico con la sparizione della produzione locale, sia sul piano giuridico, con la sentenza sull’illegittimità dell’ammasso obbligatorio della canapa, pronunciata dalla Corte Costituzionale nel 1963. Il caso fu portato all’attenzione della consulta costituzionale da Fioravante Liotti, che ricordo come nonno Fiore, strenue imprenditore nel settore della canapa tessile, accusato di contrabbando perché rifiutava apertamente le logiche antieconomiche delle politiche di stampo corporativo.
Egli, come gran parte delle aziende concorrenti del polo canapiero meridionale, tendeva a trasportare in linea diretta la canapa dai campi coltivati dei Regi Lagni al centro di trasformazione della pianta in fibra tessile a Frattamaggiore, scansando dal giro d’affari il passaggio al Consorzio. Al vaglio costituzionale i principi di libertà e ragionevolezza economica prevalsero sugli strascichi della politica autarchica e nonno Fiore fu scagionato.
Ciò non servì a favorire le sorti della canapa sul mercato tessile. Negli anni ’70 e ’80 continuava il declino del settore, colpito stavolta dall’arretratezza tecnologica dei processi di trasformazione e dall’avanzare di meno costose fibre sintetiche. I canapifici gradualmente adattarono la loro industria alla produzione di fibre naturali alternative alla canapa come la iuta, il lino e il cotone, la cui lavorazione risultava più semplice.
Contro il processo di decomposizione del settore si sviluppò un timido movimento di resistenza da parte degli imprenditori della canapa, testimoniato dalla nascita di associazioni e dall’organizzazione di alcuni convegni sul tema. Tuttavia l’ambizione di rinnovare lo sviluppo del mercato della canapa era bloccata dalle inconciliabili contraddizioni normative che inducevano i controlli pubblici a confondere le coltivazioni di canapa industriale con la produzione della sostanza stupefacente. Nel tentativo di arginare il problema, alla fine del 1997 il Ministero delle Politiche agricole emanava una circolare per promuovere la coltura della canapa, che già da un decennio godeva del regime di aiuti europei per l’agricoltura. In quegli anni rimbalzava infatti anche nel dibattito europeo la questione della reintroduzione della canapicoltura quale risorsa tanto nel settore tessile quanto in quelli cartario, edilizio, alimentare, ecc.
Al volgere del nuovo millennio la lavorazione industriale della canapa è ormai ridotta ai margini infinitesimali della produzione tessile nazionale e anche gli eredi di nonno Fiore sono costretti alla conversione degli impianti. Il commercio dei filati e tessuti made in Italy non regge la concorrenza globale. I prodotti tessili in canapa proveniente dall’Asia, di qualità e prezzo inferiori, trovano maggiore fortuna perché riescono ad assecondare le esigenze iperconsumiste del mercato.
Attraversando i capannoni del vecchio stabilimento di famiglia le ragnatele che ricoprono i macchinari, gli strati di polvere sui banchi e attrezzi di lavoro, i nidi di piccioni sulle finestre alte del canapificio raccontano una cultura industriale appartenente al passato. L’estremo ridimensionamento dell’attività produttiva ha lasciato spazio a depositi dove è accatastata perlopiù vecchia merce. Lo smaltimento commerciale dello stoccaggio è lento. Frattamaggiore da molto tempo non è più il cuore pulsante di un polo industriale.
Il comune ha comunque salutato con favore l’approvazione nel 2016 di una legge per la promozione della filiera agroindustriale della canapa, suggellata con l’organizzazione di una fiera annuale dedicata alla pianta. L’attenzione si è però spostata sul florido indotto alimentare. Non a caso l’attrazione principale dell’ultima edizione della fiera è stata la competizione per eleggere il miglior produttore di olio estratto dai semi di canapa.
L’ufficio del nonno conserva un altro genere di ricordi. Nonostante l’aspetto e l’odore da antiquariato, la scoperta di documenti ufficiali, riconoscimenti pubblici, testi, opere d’arte e collezioni d’artigianato provenienti dal mondo della canapa fanno rivivere e prendere coscienza della dimensione collettiva di questa esperienza, degna di conservazione museale.
La fibra di canapa ha segnato il modo di vivere dell’intera comunità e molte cantine di vecchi palazzi conservano le suppellettili che rappresentano quei tempi gloriosi della Terra di Lavoro. Canti antichi, tradizioni popolari e feste tipiche accompagnano la narrazione della fortuna che i comuni atellani hanno tratto dall’oro verde. La raccolta di questo patrimonio collettivo potrebbe essere lo stimolo per tracciare le nuove vie della canapa italiana, evitando gli errori di un glorioso e faticoso passato.