Il punto di contatto tra sciamanismo e psicoterapia
Lo sciamanismo, di cui ha tanto scritto Mircea Eliade, è una delle tecniche primordiali dell’estasi: è a un tempo mistica, magia e religione. Lo sciamano è il medicine-man, guaritore riconosciuto dalla comunità che tramite il cosiddetto “volo magico”, un’esperienza estatica in cui possono compiersi ascese celesti o catabasi dell’anima, riporta la salute all’individuo malato. Una pratica il cui lignaggio è stato custodito e tramandato da generazioni in moltissime popolazioni disseminate per il mondo, che spesso porta a fare i conti con la dimensione dell’incosciente e del sovrannaturale, con la follia dunque e il tentativo di addomesticarla, di lasciarsi guidare senza esserne travolti, proprio grazie a queste tecniche che consentono allo sciamano di parlare il linguaggio del sensibile.
A ben guardare, lo sciamano non è poi così dissimile dallo psicoterapeuta, che adopera invece le più moderne tecniche d’ascolto e di conoscenza del sensibile. Quando si tratta di incontrare l’altro, infatti, non basta l’arsenale di teorie e tecniche a inquadrare la situazione; occorre sentire, usare il proprio corpo come cassa di risonanza, farsi prossimi.
Quella sciamanica, insieme ad altre, fa parte delle tante forme di medicina tradizionale che da tempo preesistevano a quella Occidentale in molte parti del pianeta. La pratica psicoterapeutica esiste da appena un secolo, eppure si è istallata nel sistema come forma di clinica attraverso la parola, in cui il sintomo è simbolo ed enigma, espressione indiretta di qualcosa di cui non siamo coscienti. Come non notare l’inclinazione sciamanica di chi quotidianamente lavora con quest’invisibile che sono il logos e la psiche?