Il problema sono i robot o il profitto?
Fabbrica, ufficio, agenzia, cooperativa, corporation: il modo di lavorare è sempre quello. Solo l’ambiente si fa più competitivo, le circostanze esterne sempre più avverse. Internet, diciamolo, non sembra aver mantenuto le sue promesse per imporre una democrazia digitale trasparente che si rifletta anche nel mondo del lavoro. I lavori perduti da prima della rivoluzione digitale e della concomitante globalizzazione della produzione di beni, non sono ancora stati sostituiti da un reale cambio di prospettiva sul problema fornita magicamente da un algoritmo.
Alla provocatoria domanda «Ma i robot ci rubano il lavoro?», la risposta breve non può che essere: «Sì, ci rubano il lavoro». Quella lunga invece si può sintetizzare con: è una questione complicata. Ne abbiamo già discusso in queste pagine: ogni cambiamento portato dalla tecnologia ha conseguenze dirette e indirette. Le seconde sono difficili da prevedere e hanno a che con l’impatto sociale e individuale che caratterizza ciascuna tecnologia. Dopo il carbone, il vapore e i metalli della rivoluzione industriale, le sale di controllo delle nostre società sono state occupate da macchine e computer.
Non solo la manifattura, ma anche industrie come l’editoria e il giornalismo sono state completamente rivoluzionate dall’adozione massiva delle tecnologie digitali. Per non parlare dell’intero sistema finanziario. Molti lavori sono stati sostituiti dai computer. Buona parte del lavoro manuale, d’altra parte, è stata “esternalizzata” in Paesi dove il costo è minore. L’automazione sembra schiacciare tutti i lavori verso il basso, tagliare la classe media di lavoro intellettuale e specializzato.
Parlare di lavoro, con cifre sulle industrie, dati e percentuali di disoccupazione rende il discorso astratto. Lavoro, per la maggior parte della gente, significa il modo in cui pagare l’affitto, le spese e il cibo e quel poco che rimane in vizi, intrattenimento e svaghi più o meno leciti. Niente di troppo sofisticato o cool. Il modo in cui tutto questo viene regolamentato è in base alle leggi dello stato o del mercato. La tecnologia digitale dipende ancora da un sistema capitalistico industriale che ha più risorse per piegare a proprio vantaggio eventuali benefici. La decentralizzazione in teoria resa possibile dalla rete non ha ancora dato i suoi frutti.
Anche i modelli collaborativi decentralizzati promossi dal sistema rete (economia del dono, creative commons, un certo spirito della pirateria informatica) sono stati in un certo senso riassorbiti da sistemi con le carte in regola come i servizi di streaming e introiettati in servizi multimiliardari come Uber o Airbnb. La sharing economy ha già fallito? Nelle sue sbiadite sfumature questo modello è nato morto? Un feticcio da millennial, una moda passeggera?
Il mondo digitale si è centralizzato attorno a 5 aziende (Microsoft, Apple, Google, Facebook e Amazon) senza lasciare molti margini di guadagno ai piccoli. Per l’Italia, in particolare, l’effetto alla lunga non è stato positivo. Forse a qualcuno va meglio, a qualcuno peggio. Dipende molto dalla capacità di adattarsi. Purtroppo la realtà italiana è fatta per l’80% da un tessuto in sofferenza di piccole e medie imprese che, nella bruta realtà, non hanno le risorse per adattarsi, né dal punto di vista economico né da quello del know how. Stiamo fallendo nell’accompagnare questa rete di piccole realtà verso un livello sostenibile di sviluppo economico. Per una generazione che fa fatica a trovare il proprio posto nella società i vari modelli di crowdfunding come Kickstarter sono un’irrealistica sirena più che una reale opportunità.
La promessa di un benessere economico condiviso non è di quest’era di automazione e opaco controllo delle masse? Gli strumenti ci sarebbero anche. Ma la burocrazia non segue. La vera sfida – e si tratta al 100% di una sfida di creatività – è quella di creare modelli economici sostenibili e alternativi. Il problema è che siamo come paralizzati per mancanza di risorse e non sappiamo bene in che direzione guardare.
È facile criticare a prescindere l’innovazione. Più difficile è trovare un nuovo modello di innovazione che rispetti i presunti alti standard etici di chi muove la critica. Non sono i robot a rubarci il lavoro. Si tratta invece di un modello economico che vuole ridurre al massimo i costi e massimizzare i profitti, nel breve termine, e dall’altra parte una dimensione politica smarrita che non sa da che parte girarsi per progettare una visione di società a lungo termine. Da una parte il fallimento del nostro sistema è anche dovuto alla nostra incapacità di immaginarci un futuro, di fare progetti che vadano al di là dell’immediato. Mentre i robot possono sostituire il nostro lavoro, non possono tuttavia sostituire la nostra peculiare capacità di immaginare un mondo diverso. Che è tutto quello che ci rimane, e non è poi così poco.