Il mondo si prepara ad avere oltre un milione di profughi climatici
Succede in Louisiana, Brasile, New York, Australia, Thailandia, Filippine, Alaska. Succede un po’ dappertutto tra le comunità di mare. Gente che vive sulle coste e che deve abbandonare le proprie case per colpa di erosione, innalzamento dei livelli del mare, tempeste violente, perdita di terreno.
Secondo un recente articolo pubblicato sulla rivista Nature Climate Change sono circa 1 milione le persone che hanno dovuto abbandonare le proprie abitazioni. Per la precisione 1 milione e 300mila. E mentre fino a pochi anni fa si cercava di proteggere quello che c’era, adesso l’atteggiamento prevalente è quello di andare via.
Cosa fare infatti con l’arrivo di mareggiate senza precedenti, allagamenti e continuo innalzamento del livello del mare? Si possono innalzare le strade e le case, cercare di proteggere le lagune, migliorare i codici con cui si costruisce. Ma si può anche decidere di lasciare perdere, visto che i costi sono elevati, ed è certo che il clima e l’ambiente non torneranno quelli di prima.
Ed è questo il dilemma delle comunità costiere. Storicamente, migrazioni di massa collegate alle condizioni climatiche sono molto ben documentate, e quello che viviamo adesso – appunto il milione e trecentomila anime che hanno dovuto lasciare le proprie case – è la manifestazione dei nostri tempi del problema.
Nel corso del XX secolo i livelli del mare si sono innalzati di ben 12 centimetri. Le previsioni sono di varie decine di centimetri in questo secolo. Secondo alcuni studi circa 470 milioni di persone perderanno la casa.
Alcuni ricorderanno l’uragano Sandy che colpì le coste del New Jersey nel 2012 – molte delle case sono state rase al suolo e mai piu ricostruite. Dopo il tifone Haiyan del 2013 le Filippine hanno messo il divieto di costruire a 50 metri dalla costa e hanno forzato l’evacuazione di 80.000 persone. Dopo lo tsunami del 2004, almeno 22.000 case sono state perse e non più ricostruite in zone costiere.
A volte la gente via via in modo preventivo, cioè prima che ci siano i disastri: le città evacuate perché i cambiamenti climatici stanno piano piano portando via coste e case e non si vuole aspettare “il grande evento”. In Louisiana accade lo stesso: qui l’erosione dovuta alle estrazioni di petrolio e di gas ha fatto perdere case, terreni e coste. Il caso più eclatante è quello di Shishmaref in Alaska, città costruita sul ghiaccio e che è destinata a morire.
Siamo a 160 miglia dalla Russia. Il ghiaccio scompare, nevica sempre di meno, e sempre più tardi, il ghiaccio si scioglie prima o neanche si forma. L’erosione monta. L’assenza di ghiaccio fa sì che durante le tempeste pezzi interi di costa vengano triturati e finiscano in mare, senza protezione. Una delle case è già crollata in mare nel 2006. Norman era un ragazzino che nel 2007 cadde risucchiato dal ghiaccio di Shishmaref che si scioglieva e morì.
Ogni secondo pompiamo in atmosfera 1200 metri cubi di CO2. Il pianeta si è surriscaldato in media di un grado centigrado dalla rivoluzione industriale ad oggi, una enormità. L’Artico ha avuto livelli di aumento di temperatura doppi che il resto del pianeta.
In Alanska ci sono almeno 31 villaggi a rischio di scomparire, come Shishmaref. 12 di questi villaggi stanno cercando di capire dove e come evacuare, perché sanno che non c’è speranza. Siamo noi a causare tutto questo, bruciando fonti fossili a ritmi allarmanti. Se l’obiettivo è di contenere l’aumento della temperatura a due gradi centigradi, una sola cosa si deve fare: non pompare mai più petrolio.
Dall’altra parte del mondo ci sono le isole Kiribati, le isole Marshall, le isole Fiji. Lontanissime dall’Alaska ma tutte che rischiano di scomparire allo stesso modo. E poi c’è l’Isle di Jean Charles in Louisiana che pure sprofonda a causa dei cambiamenti climatici. Mentre a Miami Beach, Florida, hanno dovuto installare pompe speciali per evitare allagamenti, collegati all’erosione.
Non tutte le comunità hanno i soldi per programmare l’evacuazione e la risistemazione delle persone. È costoso, la gente è vulnerabile, è una strada a senso unico. A Shishmaref sanno che non hanno scelta, e cosi la città ha deciso di evacuare prima che il mare porti via tutto. Ma non hanno i soldi. E dove evacueranno? Non si sa, forse verso l’interno. Ma questo significa perdita di identità: la maggior parte delle persone qui vive di pesca e di caccia e delle tradizioni Inupiat collegate al mare. Saranno lo stesso popolo?
Perché devono evacuare loro se il loro stile di vita indigeno è molto meno impattante di quello di centinaia di milioni di persone che sprecano, bruciano e generano molto più inquinamento ed emettono molta più CO2 di loro?
Articolo tratto dal blog ufficiale di Maria Rita D’Orsogna