Il mondo dentro a una spirale di terrorismo, paura e controllo sociale
Nelle orecchie il rullo di tamburi e il rumore dei caccia da guerra che sono già in volo e negli occhi ancora stampate le immagini della carneficina di Parigi: analizzare cause e conseguenze del terrorismo in modo lucido è un’impresa titanica. Occorre tirarsi fuori dal flusso continuo della diretta per riprendere fiato e considerare ciò che sta succedendo da una prospettiva più ampia.
Dopo le azioni terroristiche che hanno colpito Parigi la reazione dei governi è stata invece la solita. Improvvisata, avventuriera e incapace di analizzare gli errori passati, come ormai di consuetudine dopo l’11 settembre. I francesi sono partiti con le baionette cantando la marsigliese, gli inglesi dietro, i russi lo avevano già fatto, ma almeno loro con una strategia chiara, a quanto pare. Gli americani un po’ defilati, cercando di tirare le fila, come da dottrina Obama. E l’Italia? Beh l’Italia come al solito, prima si dice “no”, poi “forse”, e nel frattempo si cerca di concordare la fetta di torta che ci spetta. In Libia dopo mesi di non interventismo la partita è stata chiusa con l’appalto per la nuova autostrada costiera affidato ad Impregilo, mentre francesi e inglesi hanno concluso ottime commesse per l’estrazione di gas e petrolio. Per la Siria vedremo. Volendo ci sarebbe da valutare il particolare che in Libia, allo stesso modo che in Iraq e Siria, si è anche fatto piombare un Paese nel caos e che ora l’Isis scorrazza anche in Cirenaica, ma evidentemente sono particolari di scarso conto di fronte alle ragioni geopolitiche ed economiche che celano questi interventi.
Perché se la volessimo vedere con raziocinio la realtà è una e piuttosto evidente: sono ormai 15 anni che andiamo avanti a bombardare alla rinfusa il mondo arabo. A livello strategico una disfatta totale: tabula rasa di Stati sovrani e creazione dell’habitat perfetto per la proliferazione di gruppi terroristici e bande locali. Ma, allargando la prospettiva, qualcuno che ci ha guadagnato c’è, non i cittadini di certo, ma alcuni gruppi economici. Ci hanno guadagnato le industrie degli armamenti, con l’italiana Finmeccanica in testa, ci hanno guadagnato le multinazionali del petrolio e del gas, e ci hanno guadagnato le sempre più influenti aziende dei contractors (ovvero i soldati privati, un tempo definiti con il termine più corretto di mercenari), che ormai in Afghanistan hanno superato per numero i militari regolari.
La creazione di quello che sarebbe diventato il terrorismo islamico come lo conosciamo oggi è invece cominciata prima. Negli anni ‘80 per la precisione, sempre in Afghanistan. Per contrastare l’Unione Sovietica che stava tentando di conquistare il Paese, gli Usa pensarono bene di addestrare, armare e finanziare un gruppo di mujaheddin stranieri guidati da Osama Bin Laden, che vedevano nella resistenza ai russi una guerra santa al servizio di Allah: nacque così Al Qaida. L’islam nella sua interpretazione più radicale, quella wahabita, fu così aiutato diffondersi in un’area geografica nella quale non era mai esistito. Anni dopo, la guerra al terrorismo esportata prima in Iraq e poi Siria, (quest’ultima combattuta ancora una volta senza volersi sporcare le mani, ma per procura, elargendo armi e aiuti ai ribelli, un ginepraio di oltre 50 gruppi diversi e in lotta tra loro tra i quali si annidano bande legate alla stessa Al Qaida) ha creato l’humus perfetto per la nascita nel nuovo mostro: l’Isis. Una mutazione genetica di Al Qaida, della quale ha mantenuto la componente terroristica, rafforzandola con l’ambizione di erigersi a stato vero e proprio, capace di governare e imporre la propria legge ad ampie porzioni di territorio.
Tutti gli attentatori di Parigi erano di cittadinanza francese tranne uno. Quindi cosa andiamo a bombardare e perché? L’Isis in quanto mandante degli attentati? Può essere una risposta. Di sicuro è la più semplice ma non è detto che sia anche quella giusta. E di sicuro non basta. Se i bombardamenti in Afghanistan e Iraq non fecero altro che rinforzare il radicalismo islamico per quale ragione questa nuova guerra dovrebbe sconfiggerlo? Nessuno sa rispondere. Per le opinioni pubbliche dei Paesi musulmani, e sicuramente per tanti arabi che vivono in Europa, da quindici anni si sta attaccando indiscriminatamente la umma, cioè la comunità dei musulmani. Proprio quella stessa comunità all’interno della quale Isis e Al Qaida fanno la stragrande maggioranza delle proprie vittime, colpendo tutti coloro che non si adeguano alla loro interpretazione fanatica del messaggio coranico. Ma, come abbiamo già visto, il nostro mainstream mediatico ignora totalmente queste vittime, a malapena ci ha parlato dei 224 passeggeri morti sull’aereo russo colpito dall’Isis, figuriamoci delle centinaia di morti quotidiani ad Aleppo, Bengasi o Mosul. Un doppiopesismo che indigna ancora di più i musulmani, alimentando un circolo vizioso.
Come scritto da Roberto Bui del collettivo Wu Ming, in una delle più lucide analisi del fenomeno uscite in queste settimane, ogni campagna in favore della guerra si basa sempre «sulla rimozione del maggior numero possibile di premesse, lasciandone solo una di comodo: quella che ci deresponsabilizza». Nel 2001 l’abbattimento delle torri gemelle divenne quell’unica premessa ammissibile, mai si parlò degli errori commessi scegliendo di finanziare Al Qaida nei decenni precedenti, oggi allo stesso modo l’attentato di Parigi è diventato l’unica premessa. Le catastrofiche conseguenze delle guerre di Bush? Quelle della distruzione di Siria e Libia? L’odio generato dalle immagini delle torture di Guantanamo e Abu Ghraib? Tutto nascosto come polvere sotto il tappeto. Completamente rimosso da ogni analisi. Così l’Isis può apparire come fa più comodo: un mostro spuntato dal nulla. E contro un mostro comparso dal nulla e che ti attacca cosa ti vuoi mettere a ragionare? Parti e combatti. Sperando che dopo non arrivi un mostro ancora più grosso come nei videogiochi.
A voler fare i puntigliosi ci sarebbe poi quel piccolo problema legato al fatto che il grosso dei Paesi che dovrebbero essere nostri alleati nella lotta al mostro fanno il doppio gioco. L’Arabia Saudita e il Qatar sono considerati i burattinai stessi dell’Isis, la Turchia con la scusa di andare a tirare una bomba sullo Stato Islamico nel frattempo ne sgancia tre sui curdi, gli unici che realmente, da Kobane in poi, stanno realmente combattendo i fondamentalisti sul campo. Mentre le nostre aziende di armi concludono affari con questi stessi stati e l’Isis si finanzia vendendo il petrolio che estrae dai pozzi conquistati a tutte le parti in causa (compreso quell’Esercito libero siriano che Europa e Usa finanziano, come dimostrato da un’inchiesta del Washington Post). Un caos totale dal quale ogni élite, politica o economica che sia, ci guadagna qualcosa. Mentre alle popolazioni di quelle aree rimangono bombe, morte e distruzione e a noi europei rimane la paura degli attentati.
Una paura che, il risultato della Le Pen alle regionali francesi lo ha dimostrato, è pura merce elettorale. Ed è anche una preziosa scusa per approvare norme che limitano la nostra libertà con la scusa di difendere la nostra sicurezza minacciata. Così oggi in Europa vediamo entrare in vigore quelle stesse norme che erano previste nel “patriot act” voluto da Bush negli Usa post 11 settembre: controlli sulle email e le chat, intercettazioni telefoniche senza autorizzazione dei magistrati, perquisizioni sulla base di semplici sospetti. In Francia tutto questo è già realtà, in Italia ci si sta muovendo e per ora il governo si è limitato a dichiarare che le spese militari non rientreranno più nei limiti di bilancio previsti dall’austerity. Come queste norme potranno proteggere la nostra libertà è tutto da verificare, di sicuro per ora la stanno limitando. Un quadro a tinte fosche, da qualsiasi prospettiva lo si guardi.