Il lento suicidio del giornalismo
La fiducia nei media tradizionali è ai minimi storici. Lo dicono i fatti. Ce lo dicono tante persone con cui abbiamo parlato e parliamo, anche quelle per cui i giornali rappresentano da sempre un punto di riferimento. Ma lo dicono anche l’Edelman Trust Barometer e il rapporto Reuters Digital News. (…)
A dire il vero c’è un leggerissimo aumento della fiducia nei media dal 2018 al 2019. Una fluttuazione modesta, che però mantiene i media nello spiacevole ruolo dell’istituzione meno affidabile secondo la popolazione informata e secondo la popolazione generale.
In Italia, poi, la preoccupazione per le cosiddette fake news, molto citate nell’ultima campagna elettorale, potrebbe spiegare “almeno parzialmente un livello basso di fiducia nei media, una tendenza di lungo periodo parzialmente attribuibile alla natura partigiana di molte fonti di notizie italiane. I brand giornalistici che sono ritenuti più affidabili sono quelli che vengono percepiti per minor livello di politicizzazione”.
In questa crisi di fiducia da parte delle persone, il giornalismo non è solo: ha dei fedeli compagni nelle altre istituzioni. I governi, per esempio. Sembrerebbe una tendenza figlia dei nostri tempi, figlia della disintermediazione. Ma anche della sovrapproduzione di contenuti informativi e disinformativi, di propaganda e news management, di comunicati stampa e notizie che si mescolano in un calderone generalista dove trovi di tutto: dall’analisi approfondita su temi di politica estera fino alla curiosità e al gossip più becero. No, non stiamo parlando di Facebook: sono i giornali italiani che, storicamente, sono sempre stati dei contenitori dove puoi trovare un po’ di tutto.
Se ti piacciono i numeri, puoi scoprire da te che i dati di vendita certificati ADS (Accertamenti Diffusione Stampa) non vanno meglio di quelli empirici, che si basano su sondaggi di opinione. Facciamo qualche esempio, senza soffermarci su voci tipo la tiratura o la diffusione ma concentrandoci proprio sulla vendita. Nel 2007 il Corriere della Sera vendeva (copie vendute più abbonati) 576.715 copie al giorno. Nel 2011 le copie vendute erano 435.384. A novembre del 2018 il Corriere ha venduto 232.491 copie al giorno, incluse quelle digitali. Un calo impressionante.
Se prendiamo Repubblica, la musica non cambia. Il totale del venduto del 2007 era di 580.920. Diventa di 187.036 copie carta+digitale a novembre del 2018.
Fa venire le vertigini, vero? Fa venir voglia di dire che il giornalismo è morto. I due principali giornali italiani perdono, in undici anni, quasi 740mila copie medie al giorno. Si dimezzano. Certo: fanno traffico sui siti. Corriere.it fa 2.474.799 utenti unici nel giorno medio secondo Audiweb. Repubblica ne fa 2.941.024. Molto meglio, con questi numeri? No. Perché dentro ci sono pezzi di ogni genere e, soprattutto, il ricavato da questi numeri in termini di raccolta pubblicitaria non risulta compensare le perdite dalle vendite.
Non solo. All’estero, dove spiccano pochi modelli virtuosi nel mondo mainstream, fra cui il citatissimo New York Times, i segnali non sembrano poi cos’ positivi. Per dire, il 23 gennaio, BuzzFeed, la catena di giornali, Gannet e Verizon hanno licenziato contemporaneamente qualcosa come un migliaio di giornalisti, in alcuni casi addirittura sostituiti al desk da bot e programmi di intelligenza artificiale. In particolare, l’enorme crisi di BuzzFeed sembra un segnale preoccupante: il popolare sito di liste leggere e virali aveva provato a fare un lungo passo anche nel giornalismo serio e d’inchiesta.
Un po’ come in Italia sta provando a fare Fanpage, con tutte le difficoltà di costruire un brand credibile dopo che per anni hai fatto – e spesso fai ancora – titoli sensazionalistici e acchiappaclick.
E allora chi è il colpevole di tutto questo, se c’è un colpevole?
A seconda dei momenti storici ce n’è uno diverso. Oggi l’assassino è Facebook. Prima era Google. Prima ancora è stato Internet. È stata la televisione, che aveva già ucciso il cinema. E più in generale è colpa del video, che aveva ucciso la radio. E poi, naturalmente, è colpa delle persone che sono sempre più stupide: per questo non comprano più i giornali. Il denominatore comune? È sempre colpa di qualcun altro. Se ci pensi bene, è una visione un po’ comoda, no?
Estratto da “Slow Journalism – Chi ha ucciso il giornalismo?” di Daniele Nalbone e Alberto Puliafito. Per gentile concessione di ©Fandango Libri 2019