Il grande ritorno di Buju Banton, un anno dopo
Com’è noto, il contesto in cui “Upside Down 2020” è nato è quello del ritorno alla libertà del numero uno del reggae giamaicano nel mondo, dopo una severa condanna penale scontata in America per questioni di droga. E dunque Buju Banton torna alla carica, a 47 anni, e cerca di riprendere esattamente da dove la sua carriera si era interrotta circa dieci anni prima, o perlomeno da dove lui si augurava che fosse arrivata prima dell’arresto, vale a dire su un tipo di proscenio che trascende il mero reggae, posizionandolo fra i personaggi notevoli della “black music” a tutto tondo. Insomma, con “Upside Down 2020” punta con decisione (anche) alle classifiche americane, e si vede, anzi, si sente.
Lo dimostra il soft rock del brano forse più convincente del disco, quel “Buried alive” in cui Buju racconta di essere stato sepolto vivo, ma che grazie a Dio continua a respirare. Come si diceva, si tratta forse dell’episodio più interessante dell’album, quasi un nuovo stile (la voce rochissima di Banton su un tappeto sonoro pop-rock), che a Buju converrebbe esplorare meglio in futuro, magari dando una sforbiciata ai cori un po’ troppo presenti e invasivi.
Gli stili però sono assai variegati: fra le tracce più efficaci vanno infatti segnalate quelle in puro, e secco, dance hall, quali “Blessed” e “Trust”, mentre il duettone col big del soul John Legend (al pari di quelli con Pharrell Williams e Stefflon Don) è pulito e orecchiabile, ma abbastanza di routine (specie in un disco con siffatte ambizioni).
È altresì un pochetto telefonata, seppur piacevole, l’allusiva versione della marleyana “Yes mi friend” («…sono di nuovo in circolazione…»), cantata insieme a Stephen Marley, ovviamente.
Scorrendo la scaletta, inoltre, si avverte smaccatamente l’assenza di uno o più brani “killer” con la sola eccezione, forse, della hit “Steppa”, ma che comunque sa di già sentito. Insomma sembra mancare la “big tune” trainante, in quanto, specie negli episodi più “reggae”, Buju sembra promettere moltissimo negli attacchi, ma poi i brani paiono non decollare mai del tutto.
Il risultato complessivo è quindi un album che scorre tutto sommato bene e che non stanca, ma con le polveri ancora un po’ bagnate, insomma non certo la “bomba” che in molti si aspettavano.
La buona notizia è che la voce di Buju Banton è arrochita e ricca più che mai, ed è la vera risorsa di un disco che si fa ascoltare soprattutto per le iperboli e le acrobazie vocali.
Buju può fare molto di più e a questo punto non resta che attendere, con una certa dose di curiosità, il suo prossimo lavoro.