Il giorno in cui l’hip hop divenne pop
Oggi che la metamorfosi è ormai completa, che la pop-izzazione della cultura Hip Hop è compiuta, ci siamo volti all’indietro alla ricerca dei segnali che, sotto gli occhi di tutti, stavano lì a indicare l’inizio del processo. «Dobbiamo tornare al crossover di fine anni 80», dice Luca Roncoroni, autore di “Hip Pop. Metamorfosi e successo di beat e rime”, libro edito da Arcana, in cui ripercorre le tappe di questo percorso e che risponde alla domanda: ma insomma, come diamine siamo arrivati a questo?
«Come tutti i generi “di rottura” l’hip hop ha avuto da sempre al suo interno una frangia più oltranzista, caratterizzata dal categorico rifiuto di qualsiasi facile concessione a contaminazioni più pop. Oggi che l’hip hop vive il suo momento di maggiore visibilità ed è diventato pop a tutti gli effetti, però, rifiutarne l’evoluzione (musicale ma non solo) è poco costruttivo».
Quindi il pop non è il Male.
L’hip hop oggi è mainstream. Accettare questa realtà è condicio sine qua non per apprezzare quanto di buono questa nuova visibilità sta portando in dote. Viviamo una quotidianità musicale quanto mai fertile e caotico, ecco perché recuperare la tradizione di una Golden Age ormai conclusa (o forse in realtà appena iniziata) è quanto mai necessario per capire il presente, senza necessariamente rifiutarlo in toto.
Ok, da dove partiamo?
Il crossover è stato un primo e imprescindibile motore alla base del successo dell’hip hop su larga scala. Il tutto è partito da un reciproco flirt tra rap e rock. Da parte del primo, l’allargamento del parco campionamenti ad abbracciare suggestioni più rockeggianti ha aperto le porte della rotazione radiofonica anche in stazioni estranee all’hip hop. Il secondo, invece, ha cominciato a guardare al rap con crescente interesse. Era una modalità espressiva inedita, avvertita come estranea e quasi aliena, ma di cui si percepiva distintamente la potenza.
C’è un brano simbolo di questo “innesto”?
Sì, la svolta definitiva di queste vicendevoli lusinghe da parte dei due generi è “Walk This Way”, blockbuster-hit del tandem Aerosmith-Run DMC.
Fino al passaggio di testimone.
Il ruolo del rock canonicamente inteso come genere capace di rappresentare la contemporaneità è definitivamente tramontato. La spinta propulsiva di quella che a conti fatti è stata La Rivoluzione pop del Novecento in ambito musicale è sempre più fioca. Un adolescente oggi difficilmente citerà un gruppo rock come suo beniamino. Viviamo in una realtà complessa, sfumata, densa di contraddizioni e zone d’ombra; di ambiguità politiche, morali, etiche, di profondi mutamenti tecnologici e sociali. Il genere musicale che oggi appare più capace di tutti gli altri di rendersi specchio di questa contemporaneità e di offrire chiavi di lettura calzanti è senza dubbio l’hip hop. Per lo meno in alcune delle sue forme.
Poi è arrivato Eminem.
Eminem è stato il primo amore. Per quelli della mia generazione accendere MTV nel pomeriggio e trovarsi i video di “My Name Is” o “The Real Slim Shady” è stata una folgorazione. Era qualcosa di nuovo e di estremamente potente: un ragazzo bianco che faceva musica nera, con una forza iconoclasta e dissacrante che non poteva lasciare indifferenti. Inoltre aveva i numi tutelari giusti (la sponsorizzazione di Dre) per risultare gradito ai paladini del rap anni Novanta e una formula vincente per conquistare le (allora) nuove generazioni e un pubblico che di rap era a digiuno.
Quale è stato il ruolo di Kanye West, invece?
Kanye West ha ottenuto un successo molto più circoscritto a livello numerico e geografico. Tuttavia con la sua bravura e furbizia nell’intuire e anticipare trend divenuti poi trasversali nel mainstream, Kanye è stato il precursore di tantissime mode: dal recupero neo-soul al crooning autotunato tipico di tante produzioni odierne. La costruzione maniacale di un personaggio perfettamente calato nella Internet-era e nella cultura dei meme è stata poi funzionale a una diffusione virale della sua macchietta, che sta finalmente attecchendo anche in Italia.
Infine, Kendrick Lamar.
Kendrick Lamar è il volto mainstream più impegnato a livello civile e politico. Ha rappresentato la sutura nel da sempre conflittuale rapporto tra il mondo hip hop e le istituzioni americane durante il doppio mandato di Obama, ed è oggi a ragione considerato una sorta di Messia del popolo afroamericano. Oltre a tutto questo, gli esiti musicali sono assolutamente straordinari nella costruzione di un’estetica colta e al tempo stesso estremamente attuale, capace di coniugare letterarietà del testo e freschezza audio-visiva.
Non ci resta che la Trap?
Nella transizione tra l’età dell’informazione e quella della conoscenza la chiave è stata la diffusione di Internet, che ha portato tutto a tutti. Come scriveva Wurman nel suo “Information Anxiety”, il paradossale esito della scelta illimitata è l’immobilità. Avendo tutto a disposizione non so mai che intrattenimento scegliere. La musica trap riveste questa annoiata quotidianità filtrata dai social network con una patina trendy e à la page, attraverso un corrispettivo musicale che prevede l’estenuante ripetizione di suoni e moduli sempre uguali. È una maniera profondamente radicata nella contingenza, di cui rappresenta un ovvio e coerente corrispettivo.
Esistono ancora nicchie di controcultura nel rap?
Forse più che di una controcultura vera e propria, oggi è più indicato individuare alcune subculture con delle premesse teoriche che aprano loro la possibilità di creare una nuova controcultura. Il rap letterario è sicuramente una di queste. Forse oggi fare controcultura è già contrapporre ai soliti cliché di un genere l’idea di una letteratura che muova dalle medesime premesse musicali, ma ne capovolga le aspirazioni.