Il commercio delle armi rallenta ma il mondo post-covid non sarà meno bellicoso
Per la prima volta dal 2005, il mercato globale delle armi ha segnato una crescita di segno negativo. Secondo il Sipri, Stockholm International Peace Research Institute, nel lasso di tempo 2016-2020, il volume del mercato degli armamenti, che negli ultimi anni avrebbe superato i 75 miliardi di euro, sarebbe calato dello 0,5%, considerando import ed export, rispetto ai 5 anni precedenti, mantenendo dunque valori relativamente stabili rispetto al periodo 2011-2015.
La leggera flessione può essere ricondotta a una decrescita dell’export pari al 22% in Russia, causata dal calo della richiesta da parte dell’India, e al 7,8% in Cina, due dei principali titani del commercio mondiale di armamenti, un andamento ripetutosi anche in Italia, che ad oggi rappresenta circa il 2,2% del mercato mondiale, dove è stato rilevato un calo sempre pari al 22%. Il trend è invece opposto negli Stati Uniti d’America, esportatore numero 1 al mondo, dove l’export nel periodo 2016-2020 ha segnato una crescita del 15%, percentuale che garantisce a Washington il controllo del 37% dell’intero mercato globale di armamenti, in Francia, dove l’export ha segnato + 44% negli ultimi 5 anni, e in Germania, che ha segnato un aumento del 21%.
“La pandemia ha avuto sicuramente il suo impatto, sia nella distribuzione che nella firma di nuovi accordi militari” ha affermato Alexandra Kuimova, coautrice del rapporto annuale di Sipri sul commercio mondiale di armi, ma la decrescita trova le proprie radici in fattori anche antecedenti la pandemia, come la crescita della produzione nazionale di armamenti, o cambiamenti radicali nei rapporti tra partner storici come Turchia e USA. Proprio nel 2020, Washington, nel tentativo di convincere Erdogan ad abbandonare il sistema di difesa S-400, di manifattura russa, ha infatti sospeso tre importanti accordi con Ankara: uno per il potenziamento degli F-16 dell’aeronautica turca, uno per la fornitura di F-35, e uno per la concessione della licenza per l’export di motori di produzione statunitense, licenza che avrebbe garantito alla Turchia un contratto di vendita di elicotteri da guerra al Pakistan per un valore di 1.5 miliardi di dollari.
Così come l’export, negli ultimi 5 anni, anche l’import ha segnato una flessione negativa. Nel periodo 2016-2020, l’acquisto di armamenti in Africa ha avuto un calo pari al 13%, nonostante un incremento del 64% in Algeria, primo stato africano per import di armi, e un aumento del 843% in Angola. Nel continente americano la flessione è stata pari al 43%, con il Messico che ha registrano una riduzione pari al 14% nell’acquisto di armamenti.
In Asia, la questione è invece più complessa. La presenza della Cina nel Pacifico rappresenta infatti un fattore di rischio per molti stati confinanti, particolarmente Giappone e Taiwan. Negli ultimi 5 anni, il governo di Taipei ha notevolmente ridotto la propria richiesta d’armi, raggiungendo una decrescita dell’import del 70%, ma, secondo gli esperti, il trend dovrebbe invertirsi nei prossimi anni, considerata una massiccia richiesta di armamenti inoltrata nel 2019 dall’isola agli USA, che si sono sempre dimostrati cauti nello stringere accordi con Taiwan, fattore potenzialmente lesivo delle relazioni diplomatiche tra Washington e Pechino. In Giappone, dove lo stato d’allerta per la presenza del Dragone Rosso nel Pacifico è alto, l’import ha segnato un +124%, crescita che ha interessato anche la Corea del Sud (+57%), a causa delle crescenti tensioni con la Corea del Nord.