Il cannabusiness italiano nel 2017
Nonostante in Italia la cannabis ricreativa non sia legale, i mille prodotti che si possono ricavare da questa nobile pianta hanno già oggi un impatto da non sottovalutare sull’economia italiana.
Grow-Head-Hemp-Smart shop sono diverse tipologie di attività commerciali basate sempre e comunque su canapa e dintorni. Il diritto moderno non è ancora riuscito a vietare la vendita di semi (e meno male, aggiungiamo noi) ed i semi di cannabis sono assolutamente legali da vendere ed acquistare; la ragione è semplice: nei semi non c’è alcun contenuto di THC, che viene eventualmente sviluppato dalla pianta. E se con la denominazione Grow shop si intendono i negozi che vendono prodotti per la coltivazione (e giardinaggio a 360°) come lampade e fertilizzanti, con Head shop il riferimento è invece a tutti gli accessori utilizzati per preparare ed assumere le sostanze, dai grinder alle cartine, passando per mistiere, bong, set vari ed accessori.
In realtà nella maggior parte dei negozi italiani i confini sono labili e si confondono facendo in modo che nella maggior parte dei grow shop si trovino entrambi i tipi di prodotti senza distinzione, così come, a volte, i prodotti derivati dalla canapa industriale.
Un discorso a parte va fatto per affrontare una nuova tipologia di attività che si è affacciata sul mercato e cioè i cosiddetti Hemp shop, che, puntando sulla sostenibilità, propongono sempre prodotti per la coltivazione, ma focalizzandosi e dando maggior risalto al settore alimentare, a quello cosmetico, all’abbigliamento e in generale ai derivati della canapa industriale ed alle loro applicazioni. Gli Smart shop infine, si dedicano alla vendita di sostanze psicoattive legali come integratori o composti di origine naturale e sintetica.
Per capire meglio il fenomeno basti pensare che in 12 anni il numero dei Growshop (termine generico per definire in questo caso tutte le tipologie sopra elencate) è triplicato passando dai 100 del 2005 agli oltre 300 del 2016.
Negli ultimi 3 anni si è registrata la crescita maggiore passando dai circa 200 del 2015 ai 250 del 2016 per arrivare agli oltre 318 che abbiamo censito nella nuova guida growshop Magica Italia 2017. E nell’edizione 2018 a cui stiamo lavorando, ne saranno elencati oltre 370.
Quindi ci sono voluti dieci anni (dal 2005 al 2014) per vedere nascere 100 nuovi negozi, e solo due per vederne nascere altri 100. Insomma, in pochi anni siamo passati da piccole realtà pioneristiche, sicuramente ricche di entusiasmo ma che si basavano molto sull’improvvisazione, a realtà professionali altamente specializzate, con magazzini, dipendenti e sistemi di logistica per gestire il tutto.
Fondamentalmente il business si è strutturato in 3 diverse forme: il negozio singolo di proprietà, le realtà che da un singolo negozio si sono sviluppate creando un franchising più o meno articolato, ed i distributori che, oltre a vendere i prodotti in prima persona, si occupano di rifornire anche gli altri negozi potendo garantire prezzi bassi grazie alle grandi quantità di merce trattata. Sicuramente tra i fattori che hanno contribuito alla diffusione di questo tipo di attività c’è il fatto che ci si può lanciare in questo tipo di impresa con un investimento non eccessivo.
Per chi decide di lavorarci in prima persona infatti, le prime spese saranno quelle relative all’affitto del locale ed ai primi ordini per l’assortimento. Questo non vuol dire che sia un’attività facile da gestire, tutt’altro, ma sicuramente si è rivelata un’operazione sostenibile per molti piccoli imprenditori dal nord al sud della penisola (vedi 10 cose da sapere per aprire un growshop).
Il fatturato medio di queste attività dipende da diversi fattori (la capacità imprenditoriale del negoziante, la zona dove sorge l’attività, da quanto tempo è nata, etc) ma ad ogni modo ci sono singoli negozi che fatturano anche 35/40 mila euro al mese, mentre ci sono aziende distributrici con staff di 10/15 persone e che arrivano a fatturare milioni di euro l’anno. Ed aprire un’attività di questo tipo non significa solo avere un’attività commerciale, ma diventare le antenne dell’antiproibizionismo sui territori, con tutte le implicazioni che ne derivano.
Oggi sembra finito il clima di persecuzione che si respirava anni fa, quando, come successe nel 2008, più di 70 attività di questo tipo finirono sotto indagine.
L’ultima assoluzione è arrivata nel 2015. Anche se c’è stato un recente tentativo di sabotare i growshop alla radice, mettendo fuori legge la vendita di semi di canapa: durante la discussione della legge per la canapa industriale era infatti stato inserito un emendamento che ne avrebbe di fatto proibito la vendita. Ma l’emendamento è stato cancellato e la legge è stata approvata nel novembre del 2016, senza alcun accenno a quel divieto.
Ultima novità in ordine di tempo, che ha dato un ulteriore spinta a tutto il settore, è la così detta cannabis light: un vero e proprio fenomeno sociale e commerciale, dal quale sono nate in pochi mesi decine di aziende e rivenditori.
Intanto in America, il Paese che ha creato il proibizionismo nei confronti di questa pianta a partire dagli anni ’30 del secolo scorso e che ora è in prima linea per trasformare in business una demonizzazione senza senso, nel 2015 la vendita di marijuana terapeutica e ricreativa ha prodotto introiti per circa 5,4 miliardi di dollari alle casse degli stati americani. Nel solo Colorado, le tasse hanno raggiunto quasi il miliardo di dollari, e al contempo, assicurano dalla Drug Policy Alliance, gli arresti per crimini legati a questa sostanza sono (prevedibilmente) diminuiti del 84%, facendo risparmiare milioni al sistema penale dello stato. Il mercato cresce e fa gola anche a colossi che con la cannabis non avevano nulla a che fare, come la Microsoft che ha deciso di investire nel settore in partnership con la startup di Los Angeles Kind, grazie a un software sviluppato per aiutare i produttori di cannabis negli Stati dove è legale.