I Sioux riprendono la lotta: Trump vuole l’oleodotto sulla loro terra
Non c’è pace per gli indiani Sioux del Nord Dakota. Dopo oltre otto mesi di proteste costate centinaia di arresti erano riusciti ad ottenere la vittoria, con l’annuncio di una modifica al tragitto dell’opera. Ma ora Donald Trump torna all’attacco: l’oleodotto Dakota Access si deve fare e deve passare attraverso le terre Sioux. E gli indigineni tornano a far rullare i tamburi.
Era il 4 dicembre scorso quando il genio militare degli Usa decise di non approvare la costruzione del tratto di oleodotto che sarebbe dovuto passare sotto ai territori indigeni, dando mandato alla compagnia di studiare percorsi alternativi. Una vittoria improvvisa, quanto apparentemente totale e definitiva.
I tecnici dell’Esercito avevano riconosciuto che il tracciato del Dakota Access Pipeline avrebbe messo in pericolo le riserve d’acqua degli insediamenti della nazione indiana nel North Dakota. Una decisione giunta dopo mesi di resistenza, che nell’ultimo periodo aveva trovato ampia adesione non solo tra gli attivisti ambientali e per diritti civili, ma anche tra le altre tribù native americane, giunte anche dal Canada per dare sostegno nella lotta ai “fratelli” Sioux.
Ora il neopresidente Donald Trump ha deciso di fare ricorso contro la decisione del genio militare. Il progetto del Dakota Access, 1700 chilometri di tubi attraverso quattro stati, dal North Dakota fino all’Illinois, e trasportare 570mila barili di petrolio equivalente al giorno, non deve essere fermato e deve essere fatto lungo il suo tragitto più economicamente reddittizio.
E pazienza se la valutazione di impatto abientale ha dato ragione ai Sioux affermando l’oleodotto in caso di incidente potrebbe contaminare in modo irremediabile il fiume Missouri, che garantisce acqua, salute e prosperità ai Sioux.
La tribù Sioux di Standing Rock ha già annunciato che darà battaglia, sia a livello legale, per contrastare a livello giuridico il ricorso della Casa Bianca – sia tornando a fare resistenza ad oltranza sul terreno.
Per otto mesi, fino alla pronuncia del 4 dicembre, ogni giorno migliaia di indigeni, ai quali si sono uniti anche tanti americani comuni ed attivisti per i diritti civili, si sono ritrovati per impedire fisicamente l’avanzamento dei lavori. Non sono mai stati fermati né dagli arresti (oltre 800 in poche settimane), né dai manganelli della polizia federale. Di certo non si fermeranno di fronte all’arroganza di Trump.