I nativi americani degli Usa potranno coltivare cannabis sui loro territori
Con una delibera a sorpresa il Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti ha sancito che i territori autonomi dei nativi d’America (le cosiddette riserve indiane) potranno coltivare e vendere cannabis all’interno delle loro giurisdizioni, questo anche nel caso si trovino all’interno di stati nei quali la cannabis non è legale.
Secondo la norma pubblicata dal Dipartimeto (qui in versione completa) i territori dei nativi potranno, se lo desidereranno, attuare il mercato della cannabis seguendo però una serie di regole tra le quali: evitare la vendita ai minori di 21 anni; evitare che nel mercato possa inserirsi la criminalità o qualsiasi tipo di violenza; attuare iniziative per prevenire la guida sotto effetto di cannabis ed ogni possibile rischio per salute e sicurezza; evitare che la cannabis possa essere esportata all’interno degli stati federali confinanti.
Secondo molti analisti Usa la decisione del Dipartimento di Giustizia, a quanto pare benedetta anche dal presidente Obama, va inquadrata come una misura volta a “tastare il terreno” per cominciare a verificare l’effetto economico e sociale di una possibile legalizzazione. Infatti se pur in alcuni stati Usa la coltivazione e la vendita di marijuana sia ora legale, per il governo di Washington l’erba continua ad essere una sostanza illegale classificata allo stesso livello dell’eroina.
Non sarebbe la prima volta che le terre degli indiani d’america vengono scelte per dare il via a settori commerciali ritenuti di delicato impatto sociale e politico. Lo stesso avvenne nei decenni scorsi per quanto concerne il gioco d’azzardo, con i casinò vietati in molti stati Usa ma permessi all’interno delle riserve. Una dinamica che negli anni ha portato le antiche tribù americane a gestire grandi flussi di denaro, nel 2012 stimati in 28miliardi di dollari solo per il settore dei casinò.
Lungi dall’essere considerabili in modo romantico come riserve in cui si difende la vita tradizionale degli indiani dell’America pre-colombiana, le riserve sono infatti diventate in molti casi luoghi dove la particolare legislazione ed autonomia permette ai consigli delle tribù di attuare politiche economiche molto reddittizie. Questo ha comportato anche delle divisioni tra le 326 riserve riconosciute dal governo Usa.
Per quanto riguarda il possibile commercio della cannabis è ancora impossibile fare delle previsioni, ma già da ora stanno emergendo delle prese di posizione contrarie tra le riserve più tradizionaliste, che temono che una legalizzazione della cannabis solo nelle riserve possa contribuire a trasformarle ulterirmente in un parco giochi ad uso dei turisti americani. Fenonemo già avvenuto appunto con il gioco d’azzardo, che se da una parte ha portato nuove risorse economiche alle comunità native, dall’altro è andato ad alimentare una perdita di idendità culturale ed una sempre maggiore integrazione all’interno delle dinamiche capitalistiche.
Una presa di posizione in questo senso è già stata assunta dai rappresentanti della riserva indiana Yakama, posta all’interno di uno degli stati Usa all’interno del quale la cannabis è già diventata legale, quello di Washington. Harry Smiskin, Presidente della Nazione Yakama, ha infatti emesso un duro comunicato nel quale ha ribadito che “la legge del suo popolo rifiuta la marijuana e la considera illegale. Per questo non vogliamo che il nostro popolo, o chiunque altro, utilizzi, coltivi o venda marijuana sulle nostre terre. L’uso di marijuana non fa parte della nostra cultura o religione o stile di vita quotidiano, né della nostra medicina tradizionale. Vi preghiamo di rispettare le nostre terre e la nostra posizione”.
Una posizione nella quale riecheggia appunto, oltre all’avversione verso la cannabis in sé, anche e soprattutto la paura che l’apertura di questo mercato possa essere un nuovo cavallo di troia per introdurre elementi esterni e “corruzione morale” all’interno della comunità.