I giovani di mezzo mondo stanno protestando contro i governi
Con il sempre crescente numero di vaccinazioni, sembra lentamente sopraggiungere la auspicabile conclusione di un periodo che la quasi totalità dei cittadini del mondo non avrebbe mai pensato di vivere. Una pandemia è un evento devastante, distruttivo, ma, più di ogni altra cosa, è una prova: una prova sulla salute fisica e psicologica della popolazione, una prova sulla tenuta economica dei diversi paesi, ma, soprattutto, una prova particolarmente gravosa sul sistema democratico di uno stato.
Tra il 2020 e il 2021, il crescente malcontento nei confronti di governi autoritari, e, spesso, della loro gestione dell’emergenza sanitaria, ha spinto milioni di persone, soprattutto giovani, nelle strade e piazze di tutto il mondo. Dal Myanmar ad Hong Kong, dalla Bielorussia alla Colombia, fino alla Russia e alla Bulgaria, la pandemia sembra aver fatto da cassa di risonanza a un desiderio sempre più forte di democrazia e uguaglianza, desiderio che si è spesso dovuto scontrare con la violenza, quasi sempre arbitraria e sproporzionata, di governi oppressivi, che violano sistematicamente i diritti dei propri cittadini.
Gli esempi sono molteplici. Nella regione autonoma di Hong Kong, la sempre più pressante presenza del governo centrale cinese e la proposta di una legge sull’estradizione da Hong Kong alla Cina continentale, mezzo che avrebbe permesso al Dragone Rosso di Xi Jinping di processare e silenziare eventuali oppositori politici, sono state, nel 2019 e per tutto il 2020, la base delle manifestazioni più consistenti dal 1997, a cui ha preso parte oltre un quarto della popolazione hongkonghese.
In Myanmar, le proteste vanno avanti da febbraio e hanno coinvolto oltre 100 mila persone. Il colpo di stato messo in atto dalle forze armate birmane, il primo febbraio del 2021, ha trascinato, ancora una volta, il paese nel caos e le violenze perpetuate dall’esercito, che ha instaurato un governo ad interim, sono diventate la quotidianità per la popolazione birmana, con oltre 800 vittime in 4 mesi.
La leader Aung San Suu Kyi è attualmente agli arresti domiciliari e l’opposizione formatasi a maggio, di cui fanno parte anche vari esponenti delle minoranze etniche del paese, non è stata ancora formalmente riconosciuta, privando lo stato di una leadership politica rappresentativa del volere popolare e non lasciando ai manifestanti altra opzione che rivolgersi, senza successo, all’ONU perché intervenga.
Anche in Colombia, la pessima gestione dell’emergenza Covid e la proposta di una riforma in ambito tributario sono stati l’incipit di proteste di massa che mirano alle dimissioni del presidente Ivàn Duque Màrquez. La reazione del governo di Bogotà è stata particolarmente violenta, con diversi casi di aggressione e violenza perpetuati dalle forze antisommossa colombiane (ESMAD) nei confronti dei manifestanti.
La matrice comune di tutti questi episodi va ricercata non solo in una forte opposizione a dei veri e propri regimi autoritari, ma soprattutto nella giovane età dei manifestanti, che nell’ultimo anno e mezzo si sono erti come principali sostenitori di diritti umani, politici e civili. Sarà il tempo a dire se gli sforzi delle nuove generazioni saranno sufficienti a garantire parità e uguaglianza nei termini sperati, e molti si domandano se la fine della pandemia segnerà l’inizio di una realtà che tutela meno i diritti dei cittadini. Intanto la determinazione mostrata dai manifestanti nell’opporsi alle istituzioni è un chiaro segno della direzione che i giovani auspicano per il proprio futuro, un futuro fatto di uguaglianza e democrazia.