Hippy’ history
Nel panorama culturale e sociale è evidente come, oramai, le sottoculture siano state strumentalizzate e siano diventate un fenomeno di moda. Ma questi stili di vita alternativi sono dei movimenti storici che nascono come reazione ad un determinato contesto politico e sociale. Non si trattava, come adesso, di essere alternativi copiando un stile di vita preconfezionato per appartenere ad una determinata cerchia, era la condivisione dei valori comuni e la forza di combattere per gli stessi ideali che li univa. Finendo, poi, suo malgrado come gruppi marginali perché certi valori che contrastano con la cultura ufficiale, non da tutti sono condivisi. Uno dei movimenti che pone le basi su cui poi si svilupperanno, soprattutto in Europa, le altre culture underground è quello degli Hippy. Nato negli Stati Uniti verso la metà degli anni ’60 con gli ideali di pace e libertà, che risuonavano in maniera evidente nel periodo della guerra del Vietnam nonché contro lo sviluppo del capitalismo.
La ricerca sfrenata della totale libertà era il significato insito nel loro stile di vita. Il fatto di vestire in un determinato modo era solo la conseguenza di una vita disordinata e spesso vagabonda. Cercarono, infatti, una soluzione esistenziale alternativa all’integrazione sociale, identificandola nella formazione di comunità in qualche modo autosufficienti, basate sulla libertà, la non violenza, il rapporto con la natura, l’abbandono al flusso delle cose. L’utopia prese forma nel 1970, quando in molti abbandonarono le proprie case e le proprie città, per formare delle società agricole (definite “comuni”) e portare avanti la propria filosofia improntata al naturalismo e all’insofferenza verso ogni forma di commercio e di ricchezza. Anche in Italia si diffusero questi ideali, valori di pace e amore tanto da vedere la nascita di alcune comunità Hippy, una di quelle più conosciute è proprio quella di Ovada. Nata nel 1970 e chiusa dopo circa un anno, in seguito ad un’irruzione della polizia, di cui si trova un volantino dei “comunardi”, una sorta di manifesto-testimonianza.
“Un giorno d’inverno del 1970, raccolte alcune coperte e qualche utensile agricolo, decidemmo di andare ad Ovada, un paesino posto sulle colline del Monferrato, per costruire una comune agricola. Questa nostra decisione non fu il risultato di una paranoia del momento e nemmeno un improvviso desiderio di avventura. Molti di noi avevano vissuto le esperienze comunitarie di Mondo Beat e le lotte degli ultimi anni. Alcuni avevano anche sperimentato la vita nelle comuni cittadine, ma si erano presto resi conto che non era sufficiente, per creare rapporti interpersonali diversi, dividere assieme una stanza e pochi oggetti d’uso. Più o meno tutti affrontavano la prospettiva di una vita in comune in un modo nuovo. La cultura tradizionale con la sua ipocrisia, vacuità e mancanza di sbocco, ci stava uccidendo. Eravamo fermamente convinti che la comune fosse l’unico e significativo modo di vita. Dopo avere ottenuto il permesso di accamparci in quei terreni (quasi subito revocato dal padrone), ci demmo da fare per rendere il posto abitabile, rimuovendo le travi e le tegole che stavano cadendo a pezzi, riempiendo le stanze e i fienili dioggetti, di scritte, di disegni, di vibrazioni e di felicità.
I contadini del luogo ci accolsero come vecchi amici: mangiavamo spesso con loro, raccontandoci le nostre reciproche esperienze. Inoltre loro ci insegnavano i segreti della terra, felici di trovare in noi degli attenti discepoli.
Dopo qualche mese le capre e le galline cominciarono a crescere di numero e con loro anche i membri della comune. E cominciammo a ricevere moltissime visite: molti venivano semplicemente per curiosare, ma altri volevano vivere la nostra stessa esperienza. Più aumentavamo di numero, più difficile diventava la nostra convivenza. Le cose da fare erano molte: curare gli animali, provvedere alla semina e ai raccolti, irrigare i campi. E poi c’erano i lavori domestici. Ma non ci scoraggiavamo e riuscivamo a trasformare il lavoro in gioco: così, ad esempio, lavare i piatti al fiume diventava un rito quasi sacro, smuovere le zolle del terreno una festa. Molto spesso di notte ci mettevamo tutti attorno a un cerchio con tam-tam, armoniche, chitarre e flauti, alla ricerca di nuovi mezzi di comunicazione.”
…Un bel giorno, però, cominciammo a vedere dapprima una, poi due, tre, quattro camionette della polizia. I nostri campi vennero invasi dai porci a caccia di minorenni. I giornalisti cominciarono a importunarci per avere dettagli piccanti sulle nostre orge quotidiane. Venne anche il giorno in cui ci caricarono a forza sulle loro camionette, accusandoci di occupare dei terreni di proprietà altrui. Ma il giorno stesso siamo tornati a Ovada e ci siamo ripresi i campi e le cascine che la repressione ci aveva saccheggiato e bruciato. Agli squares diciamo che le manganellate, i fogli di via, le denunce e i chili di carta riempiti dai magistrati borghesi non riusciranno mai a costringerci ad abbandonare la terra su cui abbiamo vissuto. La terra è di chi ci vive!Firmato: gente di Ovada, Luglio 1971.”