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Hip-Hop e Islam: un connubio alla radice


L’hip hop incontra l’Islam fin dalle sue radici.
La religione musulmana ha plasmato le teste che in America hanno dato origine al rap. Dai Last Poets, da molti considerato come il gruppo che ha introdotto questo genere musicale, passando per Afrika Bambataa o Guru dei Gang Starr, l’origine del rap made in Usa è segnata dalle parole di Maometto. E’ non è stata una moda passeggera. Molte delle star della scena musicale negli anni ’90 erano di religione musulmana: Busta Rhymes, Nas, Ice Cube, Krs-One, Everlast, Jeru the Damaja, Mobb Deep, Mos Def, Rakim, Jay-Z e molti membri del Wu Tang Clan. Impegno politico e religioso, nel rap delle origini, viaggiavano di pari passo. Un elenco completo riguardo alla scena americana lo si può trovare alla fine del documentario “Don’t Panik”, della regista francese di origine algerina Keira Maameri che è stato proiettato nel 2011. All’interno la regista incontra 6 rapper musulmani provenienti da Senegal, Francia, Svezia, Usa, Algeria e Belgio, scelti per il loro impegno politico e spirituale. Il titolo riprende i versi di Medine, un artista francese che ha spiegato così il senso del suo pezzo: “Ho scritto una canzone chiamata Don’t panic (I’m muslim), che si propone di superare le differenze e denunciare discriminazioni che ci sono ancora oggi tra proletari, africani e musulmani. Ma che cosa ricorda la gente di tutto questo? I musulmani, questa è l’unica cosa che loro ricordano”.

Hip-Hop e Islam: un connubio alla radiceHarry Allen, giornalista e attivista americano da sempre vicino ai Public Enemy definisce l’Islam come la religione non ufficiale dell’hip hop. Naturalmente è un discorso che vale solo per il Paese a stelle e strisce, con la stragrande maggioranza degli afroamericani fedeli agli ideali di Maometto che in certi casi si sposano perfettamente con le istanze più radicali della comunità afroamericana. E non si può certo dimenticare l’influenza di grandi personaggi come Malcom X e Muhammad Ali, i cui discorsi sono stati ripresi e campionati in un sacco di dischi, dando sempre più forza alle richieste di giustizia sociale.
E sono nemmeno mancate le provocazioni, come quella di Paris, rapper indipendente della East Bay, che ha chiamato il suo quinto album “Sonic Jihad” proprio nel tentativo di scioccare l’opinione pubblica. O i fraintendimenti, come quando Lil’ Kim posò in lingerie con sopra un burqa sulla copertina di Oneworld magazine, probabilmente nel tentativo di emancipare i costumi delle donne arabe, ma col risultato di aver suscitato solo rabbia e sdegno.

In tutto questo non è da sottovalutare la vicinanza stilistica del linguaggio musicale più duro ed esplicito in circolazione con una religione considerata da molti come rigida e conservatrice. I testi tradizionali islamici sono scritti in metrica. Nel leggerli sembra quasi che diventino canzoni. Come quando il Muezzin annuncia dal minareto l’ora della preghiera: non sta cantando, sta leggendo in metrica. In più, ai giovani studenti, i testi vengono fatti memorizzare con l’aiuto di percussioni in sottofondo che scandiscono il tempo, per facilitarli nell’apprendimento. Insomma, per molti musulmani, è il primo approccio al rap.

Hip-Hop e Islam: un connubio alla radiceOggi, nonostante la tendenza del rap impegnato e politicizzato in America sia molto calata, uno degli esponenti più conosciuti è Brother Ali alias Ali Newman, famoso per la canzone “Uncle Sam Goddamn“, nella quale critica aspramente la società che gli sta intorno. Bianco e in più albino, si è sempre trovato più a suo agio con gli amici afroamericani, tanto da convertirsi all’Islam all’età di 16 anni abbandonando per sempre il suo nome di battesimo (Jason). Ed è stato proprio lui in passato a raccontare come questa scelta sia nata nell’ascoltare proprio i testi di Rakim e Krs-One.

Ma le rime sparate su cassa e rullante hanno preso piede anche nel mondo arabo dove il rap è diventato il veicolo perfetto per esprimere le contraddizioni di oggi e cercare di abbattere qualche stereotipo. E’ particolarmente attiva la scena palestinese, con Gaza a fare da centro ma anche in Cisgiordania e a Gerusalemme si moltiplicano artisti e dischi.

Nel 2008 la regista arabo-americana Jackie Reem Salloum ha prodotto un film documentario sulla scena hip hop palestinese intitolato “Slingshot Hip Hop”, che è stato selezionato per il Sundance film festival. Vi compaiono, tra gli altri, Sabrina DaWitch, i Dam, PR e Mohammed Farra di Gaza, WE7 di Nazareth, Mahmud Shalaby e le ragazze Arapayat di Akko. Ha dichiarato la regista: “Attraverso l’hip hop i giovani palestinesi rafforzano la loro identità nazionale, ribadiscono i princìpi comuni e provano a scardinare le forme più oppressive dell’ordinamento sociale. È un’esigenza diffusa che ho raccolto ovunque, a Beddawi, Shatila, Burj al Barajne e negli altri campi profughi palestinesi in Libano dove ho proiettato il film”.

Centro nevralgico di tutta la produzione rap made in Palestine sono gli Underground Studio di Nazareth, gestiti dal gruppo WE7. Da studio di provincia, gli Underground hanno acquisito fama a livello mondiale e divenuti una meta nella regione per tutti i rappers. Come per Shadia Mansour, palestinese di origine britannica, della quale va ricordato un pezzo pubblicato un paio di anni fa con featuring di M1 dei Dead Prez, in cui sottolineano l’uso stereotipato della Kefia, che, come ricordano, non è esattamente l’equivalente delle sciarpette di lino che affollano gli aperitivi nelle città occidentali, ma un simbolo dell’identità araba.

Insomma, se per la religione il rap può essere un modo di far conoscere i propri princìpi soprattutto ai più giovani, ed è un’opinione diffusa che molti approcci alla religione siano stati favoriti dalle parole dei proprio idoli, per i rappers resta un modo per confrontarsi ad un altro livello, spesso su temi sociali e spirituali. Un connubio che sembra far bene a tutti: sia ad una religione che negli ultimi anni è stata troppo spesso frettolosamente accoppiata a terroristi e integralisti, sia a uomini che scoprono che possono andare oltre agli insulti, per parlare ai giovani facendo sana controinformazione. Inshallah.

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Mario Catania

 



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