Heineken in Africa: la miniera d’oro di una multinazionale europea
L’Africa è considerata il nuovo paradiso dell’industria della birra. Nel continente l’amore per questa bevanda è grande, ma le vendite sono ancora modeste. Con un potere d’acquisto in rapido aumento per molti e prospettive rosee per il futuro, i conti sono presto fatti: i produttori contano su una crescita esplosiva.
Heineken parte da una posizione privilegiata nella corsa alla conquista del mercato africano. La multinazionale olandese dispone di oltre quaranta birrifici distribuiti in sedici Paesi ed esporta in pratica verso ogni altro mercato. Non le manca nemmeno l’esperienza: seconda produttrice di birra al mondo (dopo la aB InBev), è attiva in Africa da più di un seco- lo e produce in loco sin dagli anni Trenta.
Sempre più spesso il mondo degli affari vede nell’Africa l’«ultima frontiera» in grado di offrire enormi opportunità di guadagno agli imprenditori dotati di coraggio e tenacia. Lentamente, ma con costanza, sta emergendo una classe media urbana che, per la gioia dei produttori, trae buona parte del suo nuovo status sociale dal consumo di birra chiara. E l’Africa rappresenta ben più che la semplice promessa di un avvenire d’oro: Heineken lo sa meglio di chiunque altro. Data la scarsa concorrenza, in molti Paesi africani il prezzo di una bottiglia di birra è appena più basso se non addirittura più alto che in Europa, a fronte di costi di produzione inferiori. Qui la birra frutta quasi il 50% più che altrove, e alcuni mercati, come la Nigeria, sono tra i più lucrativi al mondo. Non a caso Jean-François van Boxmeer, amministratore delegato di Heineken e fine conoscitore del continente, definisce l’Africa «il segreto meglio custodito dell’imprenditoria internazionale»: un segreto che in questo libro cercherò di svelare.
Il commercio della birra in Africa è molto vantaggioso, ma certo non semplice. Gran parte della popolazione è ancora povera, le infrastrutture carenti complicano la distribuzione e non sempre si trova personale qualificato. Guerre, colpi di Stato e carestie sono assai meno frequenti che nei disastrosi anni Ottanta e Novanta, ma in diversi Paesi la stabilità politica ed economica rimangono lontane. Molte economie continuano poi a dipendere dall’esportazione di materie prime. Quando il prezzo del petrolio è basso, a soffrire è per esempio la Nigeria, il gigante economico del continente.
Di recente anche la Sierra Leone ha mostrato fino a che punto un Paese e il suo mercato interno della birra possano essere vulnerabili. Dopo una lunga ed estenuante guerra civile, questo Stato costiero dell’Africa occidentale stava attraversando una fase di notevole crescita, quando è scoppiata la più grave epidemia di ebola della storia. Pochi mesi sono bastati a cancellare anni di progressi.
Gli ostacoli non sono soltanto di ordine commerciale. Fare affari in Africa significa anche confrontarsi con dilemmi etici che oggi non si possono più ignorare. In Burundi, dove la birra è popolarissima, Heineken lavora fianco a fianco con un presidente autoritario che nel 2015, al termine del suo secondo mandato, si è fatto beffe della costituzione rifiutando di cedere il potere. La sopravvivenza del regime, che le Nazioni Unite ritengono colpevole di crimini contro l’umanità su larga scala, è inscindibilmente legata ad Heineken. La multinazionale ha perfino acconsentito alla nomina di un alto magistrato alla presidenza del suo consiglio d’amministrazione in Burundi. Come dovrebbe comportarsi un’azienda in simili circostanze? Dove è opportuno fissare un limite?
Questa edizione aggiornata contiene molte nuove analisi e rivelazioni. In Nigeria, ad esempio, mi sono imbattuto in un caso di corruzione ad ampio raggio. Nello stesso Paese ho avuto una conversazione franca e sincera con un ex manager di Heineken, il quale mi ha raccontato che sotto la sua direzione l’azienda ha impiegato migliaia di prostitute per una campagna promozionale. Ho scoperto poi che Heineken era più coinvolta di quanto già sapessi nel genocidio del Ruanda del 1994, e le mie ricerche hanno influito su un recente accordo fra l’azienda e un gruppo di operai congolesi licenziati durante una guerra civile.
Ad ogni modo, il libro non è un’accusa ad Heineken in particolare, ma uno studio approfondito sulla condotta di una multinazionale in Africa, secondo molti «il continente degli affari» del futuro. A quanto mi risulta, sotto numerosi punti di vista la multinazionale olandese si comporta in maniera simile ai suoi concorrenti e ad altre aziende occidentali, e non considero una mia missione mostrare in quali settori Heineken faccia meglio o peggio. Ai miei occhi è ben più importante richiamare l’attenzione sui problemi con i quali un’azienda come Heineken deve confrontarsi in Africa, nonché sulle conseguenze concrete delle sue azioni.
La prima speranza di un giornalista è che il suo lavoro faccia riflettere i lettori.