Hashishin tra mito e realtà
La prima volta che ho sentito qualcuno definirsi Hashishin è stato nel 1980 a Nuova Delhi, in India. Un Hashishin è un maestro produttore di fumo, stando alla definizione di due rifugiati afghani che, dopo le mie varie visite annuali, sono diventati amici stretti, protettori e mentori in quei miei primi anni passati in India. Nelle montagne dell’Hindu Kush, il più antico centro di “addomesticamento” delle piante e, probabilmente, la culla delle più antiche tradizioni dell’hashish, un Hashishin è un devoto della resina, un maestro di un mestiere antico che tramanda il sapere sugli aspetti psicoattivi e terapeutici dei metaboliti secondari della pianta di cannabis, sulle teste dei tricomi e sulla loro trasformazione in hashish di generazione in generazione; maestri di un’arte antica quanto l’agricoltura stessa.
Sebbene Marco Polo fosse uno degli eroi della mia infanzia, e nonostante ricordassi la storia di una setta di assassini persiani, non ho mai unito i puntini fino a quando, dieci anni fa in Occidente, non ho usato il termine per definire il mio mestiere. Ciò ha sollevato molti interrogativi che mi hanno portato a ricercare le origini della parola “hashishin”.
Le origini del termine Hashishin e il suo primo utilizzo sono avvolti da una spessa cortina di pregiudizio Islamico e di estremismo religioso che si verificò tra varie fazioni in seguito alla morte del profeta Maometto (632 d.C).
L’hashish è stato quasi sicuramente introdotto nei paesi islamici da sadhu e fachiri erranti provenienti da India e Persia. I Sufi iniziati, noti come Hashishiyya, e altre confraternite islamiche mistiche, utilizzavano l’hashish – conosciuto come “Erba dei Fachiri” – già alla fine del X secolo.
Il termine Hashishin proviene da quello arabo Hashishiyya, “consumatori/mangiatori di Hashish”. La parola Hashish deriva presumibilmente da quella araba حشيش, erba o erba secca.
Come scrive Franz Rosenthal nel libro “The Herb: Hashish versus Medieval Muslim Society”, «L’uso dell’hashish da parte delle confraternite Sufi, e l’importante ruolo che presumibilmente hanno avuto nella diffusione del suo utilizzo, può essere riconosciuto come dato di fatto viste le prove che lo dimostrano». I Sufi iniziati venivano chiamati Hashishiyya e, comunemente, denominavano la sostanza Hashish al-Fuqara (l’erba dei fachiri). Altri termini utilizzati tra loro per descrivere l’hashish erano “digestivo” (hadim al-aqwat), “desta pensiero” (baithat al-fikr), “regina della follia” (sultanat al-junun), “la verde” (al-akhdar), “figlia della cannabis” (ibnat al-qunbus).
Si credeva che il consumo di hashish indebolisse la moralità e la religione, e quindi anche gli hashishiyyas, i consumatori di hashish, erano considerati eretici, e inferiori moralmente e socialmente. Una visione del mondo che purtroppo persiste ancora oggi.
Gli Ismailiyya, un ramo dei musulmani sciiti convinto che tutto il potere religioso dovesse essere detenuto dal discendente diretto della figlia del profeta Maometto, Fatima, e del cugino e genero, Ali, erano dominanti fino al secolo XI. Successivamente, si verificò un trasferimento del potere religioso dall’Egitto alla Siria, all’Iraq e all’Iran, dovuto a ulteriori lotte intestine.
In un momento di tale sconvolgimento, una fazione persiana degli Ismailiyya chiamata Nizari Ismailiyya, si separò dall’Islam e, attraverso la conquista militare, creò il proprio centro di potere in Asia centrale.
La leggenda di Rashid ad-Din Sinan – conosciuto come il Vecchio Uomo delle Montagne – e la sua setta degli assassini, è stata resa famosa dalle storie raccontate dai cavalieri di ritorno dalle crociate e da viaggiatori come Marco Polo, e si basa su testimonianze storiche.
Gli Ismaili persiani si allontanarono dalla tradizionale concezione dell’onore del guerriero e iniziarono a compiere assassinii per evitare le battaglie. La strategia era semplice, tagliare la testa del serpente per evitare che fosse di nuovo una minaccia. Da qui nasce il terrorismo, che era tutto ciò di cui i Nizari Ismaili avevano bisogno per sopravvivere, fino a quando, quasi due secoli dopo, vennero conquistati dai mongoli.
Erano talmente temuti che la minaccia di un assassinio era sufficiente per spaventare qualsiasi aspirante conquistatore. Perfino il più grande stratega e comandante del maggiore esercito del tempo, Saladino, che in Siria, stando alla leggenda, si svegliò una notte e vide accanto al suo letto un coltello avvelenato con un messaggio che gli suggeriva di cessare i suoi sforzi militari di conquista, si ritirò sotto la loro minaccia.
L’omicidio politico che rese la setta così famigerata agli occhi del mondo occidentale fu quello del nobile italiano Corrado del Monferrato, uno dei principali comandanti all’epoca della Terza Crociata (1189 –1192). Era stato eletto Re di Gerusalemme e venne accoltellato per le strade della città in piena luce del giorno da due assassini Nizari Ismailiyya.
Il fattore paura dovuto a una minaccia di morte emessa da un addestrato gruppo di esperti assassini, insieme al noto utilizzo di una vasta rete di spie da parte della setta, ha spaventato generazioni di aspiranti conquistatori. Per due secoli i Nizari Ismailis sono sopravvissuti in mezzo al potente e ostile impero Islamico. La fortezza di Alamut e una serie di altre fortezze remote in Siria e in Persia, erano il centro del loro piccolo territorio indipendente e delle loro secrete credenze religiose.
Si crede che l’intrepida devozione e l’estrema lealtà attribuita ai Nizari Ismailis fosse da imputare a un lavaggio del cervello indotto dall’Hashish. In questo modo, i seguaci avrebbero poi dedicato la loro vita a soddisfare gli ordini del “Vecchio Uomo della Montagna”. Tali miti si sono radicati grazie a Marco Polo che li ha raccontati come parte delle sue avventure lungo la Via della Seta, non considerando che il leggendario Rashid ad-Din Sina era stato uno dei governanti della fortezza di Alamut. Inoltre, Marco Polo percorse la Via della Seta nel periodo di massimo apogeo dell’impero mongolo, che si estendeva dalla Cina all’Europa fino alla penisola arabica. La fortezza di Alamut fu conquistata dai mongoli nel 1256 e Marco Polo iniziò il suo viaggio alla fine dell’anno 1271, parecchio tempo dopo che i mongoli distruggessero la fortezza.
Tutto ciò che si sapeva di questa setta estremamente segreta e mistica proveniva dalle stesse popolazioni che gli assassini hanno terrorizzato per oltre due secoli. Sicuramente, la potente cultura dominante detestava che i propri piani di conquista e le proprie credenze religiose venissero ostacolati, così come detestava vivere nel timore di una setta eretica e minoritaria che, per due secoli, ha detenuto una manciata di fortezze. L’unico modo per ottenere una redenzione storica era screditare l’odiato e temuto nemico. Il consumo di Hashish era considerata una pratica dannosa e corrotta da quando è stata introdotta poco prima del secolo IX. Associarlo a una minoranza terrificante fu un modo elegante non solo per infangare la reputazione e le credenze della setta, ma anche per stigmatizzare l’uso di una pianta dai noti benefici per la salute. L’inarrestabile, astuta e brillante strategia dei Nizari Ismailis e la loro dedizione verso il proprio credo e la loro sovranità, è stata viziata e oscurata dallo stigma nei confronti dei consumatori di hashish.
La repressione da parte delle autorità verso la nostra comunità minoritaria di consumatori di cannabis ha una storia lunga. In quanto consumatori di hashish, per troppo tempo siamo stati considerati eretici, inferiori moralmente e socialmente, nonché un peso per la società. Sebbene ci troviamo ancora distanti dall’essere riconosciuti come risorse creative e di valore per la società, almeno non siamo più considerati vili assassini e predatori malvagi che minacciano le fondamenta stesse del mondo civilizzato. Noi siamo il futuro rinnovatore, connessi a una pianta che incoraggia la comunicazione e il senso di comunità di cui il mondo ha disperatamente bisogno.