Guè Pequeno – Il ragazzo d'oro (recensione)
Che i Club Dogo siano la realtà più influente e sdoganata dell’hip hop italiano è oramai cosa nota: le collaborazioni trasversali degli ultimi tempi li hanno portati a performare con artisti come Biagio Antonacci, Subsonica, Pino Scotto e Nicola Fasano, tra gli altri. Musicisti portavoce, capaci o meno che siano, di generi come il pop, la musica leggera, il rock e la dance, poche altre volte ibridati al rap italiano. Insomma, per quanto siano controversi, i Dogo hanno racimolato col tempo consensi sempre più ampi su tutti i livelli.
“Il ragazzo d’oro” è il primo disco solista del Guè Pequeno e chiude il trittico inaugurato dal collettivo “Che bello essere noi” del 2010, proseguito poi col side project di Don Joe, che assieme a Shablo ha confezionato “Thori e Rocce”, qualche mese fa. Un biennio intenso, che, probabilmente, chiude un altro ciclo dei Dogo. Quanto meno ce lo auguriamo.
Su un album ufficiale, mai prima d’ora il Guercio aveva allentato il decennale connubio coi soci di sempre, Don Joe e Jake la Furia. Nei mixtapes Fastlife si era cimentato invece su strumentali americane: quando le idee su di un nuovo prodotto erano ancora embrionali, in cantiere vi era proprio il terzo capitolo della saga che lo ha unito a Dj Harsh. Al massimo, tra un lavoro coi Dogo e l’altro, gli sforzi sarebbero stati profusi per uno street album in solista. Eppure, Guè dixit, vi erano dei brani tanto fighi quanto sprecati per il free download o per accantonarli in un progetto di più facile fruizione.
Difficile dargli torto. “Dichiarazione”, “Il blues del perdente”, “Figlio di Dio” e “Non mi crederai” sono quattro episodi che ne esaltano le rinomate e risapute qualità stilistiche e che ricorrono al cerebrale molto più di quanto si era fatto col divertissement delle precedenti produzioni. Comune denominatore, un orientamento più classico, dal beat al flow: non può essere un caso. Certo, vi sono brani che in un mixtape avrebbero spinto forte, tipo la mezza genialata americanoide della title track (mezza, solo perché qualcuno c’è arrivato prima…), l’incetta di punchline in “Big!” con buona parte della scena rap italiana, e le due versioni, soft e hard, di liriche a tripla X. Ma il doveroso raffronto con i pezzi prodotti rispettivamente dal redivivo Fritz da Cat, da Roc B, Bassi Maestro e Shablo (non è un caso nemmeno che siano questi quattro a timbrare il cartellino) è, per contenuti e spessore, impietoso. Perché un certo tipo di rime e brani non è più ficcante, soprattutto se non ha la brillantezza di un tempo e se è esplicitamente indirizzato ad una fan base meno “esperta”. E perché, per dei rapper così influenti e forti, è ora di dare nuova linfa alla propria musica e non crogiolarsi sul successo accumulato.
Date le premesse, “Il ragazzo d’oro” è inevitabilmente fondato su un’eterogeneità di stili, tematiche e suoni, ma consolida il talento e la versatilità di Guè. Su Youtube i nove (!!!) video tratti dal disco, tra street ed official, raggiungono in media 500’000 click. A cinque mesi dalla sua pubblicazione, è ancora in giro per l’Italia a promuoverlo. Ora, però, viene il bello: un ciclo di dischi, lungo e fortunato, può dirsi concluso. In attesa del prossimo…
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Nicola Pirozzi