Gli indignati invadono il web
Facebook e Twitter: senza di loro, probabilmente, le varie manifestazioni e rivolte che si sono succedute in questi mesi non avrebbero visto così tanti giovani “indignati” scendere in piazza, gridando tutto il loro disagio contro gli attuali governi e dittature. I social network hanno avuto un ruolo fondamentale per l’organizzazione delle proteste, creando un passaparola virale senza precedenti.
Tutto ha avuto inizio in Iran, un paio di anni fa, quando il Movimento Verde, con a capo Mir Hossein Mousavì, è sceso in strada a protestare, chiedendo di annullare le elezioni del 12 giugno, che hanno riconfermato Mahmud Ahmadinejad come capo di stato. In risposta a ciò, il governo iraniano decise di mettere in atto una dura repressione, oscurando i media televisivi e condizionando fortemente le notizie sui giornali. Ed è in questo momento che emerge la potenza di Internet e dei social network. I giovani del Medioriente riescono a diffondere la protesta grazie a Facebook e Twitter, ma anche tramite i video degli scontri caricati su Youtube. Il colosso Google, inoltre, per l’occasione, decide di aggiungere una lingua alla sezione “translate”, il persiano, proprio per ottimizzare la comunicazione. Ahmadinejad reagisce, e blocca i siti pro-Mousavì e i portali di news stranieri ma nulla può contro i “cinguettii” di Twitter, che funziona anche tramite sms. Sarebbe difficile, per non dire impossibile, bloccare l’intero sistema delle telecomunicazioni. Quindi, informazione e controinformazione sono unite insieme dalla tecnologia, per combattere la censura messa in atto dal regime.
Ci sono poi le rivolte africane, diffusesi a macchia d’olio in tutto il Maghreb, in seguito alla morte del tunisino Mohamed Bouazizi, il giovane ventiseienne che, nel dicembre 2010, si è dato fuoco per protesta dopo che la polizia gli aveva sequestrato, per mancanza di licenza, la frutta e la verdura che vendeva per campare. Oltre che in Tunisia, la tensione sale velocemente anche in Egitto, in Algeria e in Libia. E pure qui i “siti sociali” risultano determinanti. Basti pensare che il 14 gennaio giorno in cui il presidente tunisino Ben Ali lascia il proprio paese per fuggire all’estero, su Twitter viene postata 196mila volte la parola “Tunisia”, in media ventotto volte al secondo. Come in Iran, però, non mancano gli atti di censura. Vengono, infatti, bloccate diverse pagine di accesso su Facebook e arrestati parecchi blogger.
Ma anche in Europa succede qualcosa. La miccia si accende in Spagna, a metà maggio, con migliaia di ragazzi che decidono di occupare la Puerta del Sol di Madrid. I media li ribattezzano subito “Indignados”. Motivo della protesta? La disastrosa situazione economica del paese iberico. Il collante di tutto è sempre lui, Twitter: il 18 maggio sono 114mila i “tweet” sulla manifestazione e su Facebook, la pagina ufficiale dell’associazione “Democracia Real Ya”, la piattaforma digitale che ha lanciato la protesta, riesce ad accumulare, in pochi giorni, più di 100mila “mi piace” (oggi si è oltre i 400mila). Su Internet vengono fornite, tra l’altro, diverse informazioni sui vari campout allestiti, e si indicano le vie delle città da occupare. I video caricati sono numerosissimi.Viene anche allestita una web-tv con tanto di streaming da Puerta del Sol.
A giugno, gli indignati prendono il sopravvento anche in un altro paese europeo in forte crisi economica: la Grecia. La protesta si sviluppa a piazza Syntagma, ad Atene. Il modello su cui ci si basa è quello spagnolo e, anche in questo contesto, il Web contribuisce a favorire la mobilitazione portando migliaia di persone, arrabbiatissime per gli accordi stipulati dalla Grecia con l’Ue e il Fondo monetario internazionale, a protestare davanti al Parlamento ellenico. Poi c’è la Siria e, più recentemente, Londra. La capitale inglese è stata messa a fuoco e fiamme nel mese di luglio: case bruciate, negozi distrutti, scontri con le forze dell’ordine. I contestatori hanno tessuto tra di loro una rete di contatti molto fitta, grazie a servizi di chat come Messenger e, ovviamente, i soliti social network. Il primo ministro inglese, David Cameron, non l’ha presa molto bene, tanto da affermare: “La libera circolazione delle informazioni può essere usata per nobili azioni. Ma anche per azioni malvagie. E quando le persone usano i social media per creare violenza dobbiamo fermarli. Stiamo lavorando con la polizia, i servizi d’intelligence e le aziende per capire se può essere giusto impedire alle persone di comunicare attraverso questi siti e servizi quando sappiamo che stanno preparando violenze, disordini e atti criminali”. In realtà, Scotland Yard teneva d’occhio da molto tempo i social network, ma non gli smartphone della BlackBerry, diffusissimi tra i giovani londinesi, i cui messaggi sono difficilmente rintracciabili. Le possibilità che le parole del leader conservatore si tramutino in realtà sono comunque risibili.
E in Italia? Anche noi abbiamo i nostri indignati: Popolo Viola, Movimento delle Agende Rosse, Rete 29 aprile, Valigia Blu, i terremotati dell’Aquila. La società civile è scesa in piazza più volte negli scorsi mesi. Ma l’impressione è che si sia ancora lontani, causa rassegnazione, da quella voglia di cambiamento e di rivalsa – vista all’estero – nei confronti di chi ha portato lo Stivale nelle condizioni pessime in cui versa oggi.
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Lorenzo Chiavetta