Giurisprudenza e coltivazione: stato dell’arte
L’onda di entusiasmo che la sentenza 32 della Corte Costituzionale del febbraio 2014 aveva suscitato, nel momento in cui si dichiarava – finalmente – l’illegittimità di alcune significative parti della L. 49 del 2006, ha avuto vita breve.
Il sottoscritto era stato fra coloro (pochi invero) che – con un pessimismo che era stato oggetto anche di virulente critiche da parte dei soliti saccenti – ritenevano, che, al di là del ritorno alla naturale differenziazione sanzionatoria fra droghe pesanti e droghe leggere, non sarebbero, peraltro, intervenuti sostanziali mutamenti di rotta, soprattutto in relazione alla vexata quaestio della coltivazione di piante di cannabis.
Le alterne vicende giurisprudenziali (sia di merito, che di legittimità) di questi 22 mesi hanno sancito un principio.
Le sentenze – spesso in antitesi a contraddizione tra loro – hanno avuto un denominatore comune e cioè la conferma che il tema della valutazione dell’offensività della condotta coltivativa di piante di cannabis ha assunto una rilevanza basilare nel sistema organico e complessivo delle norme penali che governano la materia degli stupefacenti.
Allo stato è, quindi, in corso un braccio di ferro fra opposti schieramenti interpretativi.
Da un lato, si pone l’orientamento giurisprudenziale originariamente maggioritario (che, però, sta subendo una significativa, quanto progressiva erosione di consenso) il quale, parcellizza l’insegnamento della sentenza n. 28605 del 24 aprile/10 luglio 2008 delle SS.UU., in quanto valorizza, ai fini dell’indagine sull’offensività, esclusivamente l’assioma per cui la coltivazione, ove idonea a produrre principio attivo, costituisce sempre e comunque reato.
Tale indirizzo, di conseguenza giudica come inoffensiva solo quella condotta coltivativa, che per l’elevata (se non assoluta) irrilevanza ponderale del THC eventualmente rinvenuto, non risulti atta ad accrescere la disponibilità generale del prodotto sul mercato illecito. Un quantitativo di THC obbiettivamente modesto, ma non minimale (non riconducibile, quindi, a pochi milligrammi) risulterebbe in compatibile con un giudizio di inoffensività della condotta.
Dall’altro, invece, è ravvisabile una serie di approdi ermeneutici – l’ultimo dato dalla sentenza della Terza Sezione della S.C., n. 43986 del 27 marzo/2 novembre 2015 – che, invece, introduce un approccio meno algido ed ingiustificatamente rigido al tema dell’offensività della condotta coltivativa.
Vengono, infatti, individuati una serie di paradigmi che appaiono, invece, più sinergici e coerenti rispetto alla realtà che le vicende processuali che quotidianamente dibattiamo nei tribunali ci offrono.
Sull’onda di sempre più numerose pronunzie di merito di primo grado, anche la Corte di Cassazione ha evidenziato il valore canonistico e la rilevanza probatoria:
1) del numero delle piante coltivate, parametro idoneo a comprendere la portata e l’estensione della condotta stessa;
2) dell’effettiva destinazione del prodotto della coltivazione al consumo personale del medesimo coltivatore, ove dimostrato che egli sia assuntore. Viene valorizzata, così, in modo più realistico ed ampio la scriminante, ritenuta sino a poco tempo fa operante solo in materia di detenzione e possesso di sostanze psicoattive;
3) della necessità di operare una razionale proporzione fra il quantitativo di principio attivo estraibile dalle piante e la dimensione del mercato illecito degli stupefacenti del luogo del fatto.
Si può, in tal modo, inferire il giudizio d’idoneità della singola coltivazione a contribuire sensibilmente e realmente all’accrescimento della disponibilità di stupefacente sulla piazza. I nuovi criteri faticosamente introdotti dalla giurisprudenza al momento stentano ad assumere un valore d’inequivoci e di capisaldi decisori per il sistema giudiziario. Essi incontrano, infatti, forti quanto illogiche resistenze esegetiche. Sovente emerge una diffusa insufficiente preparazione di base in materia. Altrettanto spesso intervengono valutazioni le quali nascondono un approccio culturale aprioristicamente, orientato in maniera sfavorevole alla risoluzione dei problemi concernenti la materia degli stupefacenti.
La ovvia e naturale contrarietà etica (in ciascuno di noi) all’uso degli stupefacenti, finisce per assorbire impropriamente anche i profili penali impedendo, pertanto, una valutazione laica e corretta di condotte che, ad un esame obbiettivo, non paiono presentare caratteri di offensività.
È quindi necessario che gli addetti ai lavori compiano un salto di qualità, culturale e giuridico, per comprendere il fenomeno della coltivazione domestica di piante di cannabis (finalizzata non solo ad un utilizzo ludico ma anche quale alternativa terapeutica).
In questo contesto la politica deve assumere un ruolo di incidenza più profonda rispetto al problema, e inoltre deve proporre soluzioni credibili e migliori di quelle sinora avanzate.