C’è un giudice a Bologna…
La Corte d’Appello di Bologna riforma la sentenza del GUP di Parma in materia di canapa light e assolve un commerciante precedentemente condannato
Chi veramente mi conosce – e purtroppo, o per fortuna – non sono in molti, sa perfettamente, che, tra i miei numerosi difetti caratteriali, non alberga quello dell’autocelebrazione.
Mi piace informare una platea estremamente articolata e variegata, come quella del mondo della canapa, di quali sono i periodici approdi della giurisprudenza, basandomi su decisioni, molte delle quali rese all’esito di procedimenti che mi coinvolgono, senza, però, omettere di ricordare anche altre che siano indubbiamente significative.
Capita, però, di vivere professionalmente situazioni che non si possono tacere, perché comprendono un’altalena di emozioni tra loro – spesso – contraddittorie.
È il caso di un processo, per così dire, segmento-satellite di quello a carico di Luca Marola, attualmente in trattazione dibattimentale innanzi al Tribunale di Parma. La vicenda è nei fatti semplice.
Quando nell’estate del 2019 la Procura di Parma iniziò la propria crociata contro la canapa light – ed in special modo nei confronti di Luca Marola – anche altre persone furono pesantemente coinvolte nell’indagine. Tra costoro anche un imprenditore della provincia di Mantova, che commercializzava la canapa light per il tramite di distributori automatici. Ebbene egli venne a subire un importante sequestro di prodotti, che la Procura di Parma, convinta in un modo che non ammetteva discussioni o contestazioni di sorta della bontà delle proprie convinzioni, dispose. L’intimo – ma neppure tanto, attese le conferenze stampa e le sortite mediatiche – pensiero dei Pm (Procuratore capo in testa) venne, contingentemente confermato dalle decisioni del Tribunale del Riesame e della Corte di Cassazione. I sequestri erano legittimi e le doglianze mosse dall’indagato e dal suo difensore non avevano pregio alcuno.
Posizioni valorizzate dagli inquirenti quasi come sacre, nonostante il nostro indagato venisse in pari tempo prosciolto per archiviazione (si ribadisce per fatti totalmente identici di commercio con distributori automatici) dai GUP di Reggio Emilia e di Bergamo. Evidentemente a Parma, l’accusa era sicura del fatto proprio e riteneva che interpretazioni o valutazioni difformi rispetto al proprio indirizzo fossero inaccoglibili o da trascurare. Inutile dirvi che, nonostante una perizia tossicologica che riportava conclusioni indubbiamente favorevoli all’indagato (i circa 25 prodotti esaminati ciascuno nella propria individualità, mostravano la presenza di livelli di THC < al limite dello 0,5%, eccezion fatta per 2), la Procura coriacemente portava a conclusione l’indagine, chiedendo il rinvio a giudizio del mio assistito (assieme ad altre tre persone fra cui Marola).
All’udienza preliminare le vie giurisdizionali degli imputati si sono divise. Vi è stato chi ha patteggiato, chi ha chiesto la messa alla prova e chi ha ritenuto di sottoporsi al dibattimento.
D’intesa con il mio assistito ho deciso di giocarmi la carta del giudizio abbreviato, ritenendo di avere argomenti validi per difenderci e chiedere l’assoluzione. Ci siamo scontrati, dapprima con il totale rigetto delle mie richieste di integrazione istruttoria, concernenti approfondimenti tossicologici, sia di natura documentale, che testimoniale, poste a condizione del rito abbreviato e, indi, adottato il giudizio abbreviato ordinario con le posizioni del giudice certamente più in sintonia con quelle dell’accusa. Morale, una sentenza di condanna assai pesante, con l’inflizione di una pena di 2 anni e 3 mesi di reclusione, oltre ad una rilevante pena pecuniaria, vale a dire una sanzione che avrebbe potuto anche teoricamente portare in carcere un imprenditore incensurato ed assolto in tutte le altre analoghe vicende in cui aveva dovuto difendersi. Non vi nascondo l’amarezza e la rabbia. Sentimenti che si sono acuiti alla lettura delle motivazioni della sentenza, pubblicate dopo 90 giorni.
Per il GUP nessuno degli argomenti prospettati (mutuati dalla copiosa giurisprudenza in corso di formazione, sia di merito, che di rito) aveva valore, perché il teorema della Procura di Parma era esatto e corretto e nessun valore potevano avere i dati acquisiti dall’analisi tossicologica (e allora perché mai sarebbe stata effettuata?), atteso il generale divieto del commercio della canapa light.
Dopo la delusione, abbiamo indirizzato i nostri comuni sentimenti in un lavoro ancor più dettagliato e certosino, redigendo un appello, che pur ribadendo la nostra linea difensiva, si arricchiva di spunti critici verso la sentenza di cui chiedevamo la riforma. La sentenza della Terza Sezione della Corte di Appello di Bologna del 19 gennaio 2023, che ha assolto l’imputato perché il fatto non sussiste, è stato l’esito naturale di questo doloroso sforzo.
Non conosciamo ancora le motivazioni, ma già alcune osservazioni possono essere
svolte.
– La prima riguarda la circostanza che la formula non lascia spazio a dubbi, il fatto-reato non sussiste, non esiste.
– La seconda attiene al fatto che l’imputato è stato assolto pienamente, cioè senza che sipotesse sostenere che le prove a di lui carico fossero insufficienti.
– La terza si rinviene nella stessa richiesta svolta dal PG in udienza. Il rappresentante dell’accusa ha criticato la sentenza e, seppure con ragioni di minor respiro rispetto a quelle adottate dalla Corte, aveva chiesto che l’appello fosse accolto. Ha affermato il PG, infatti, che non esistessero elementi a sostegno dell’accusa, quanto meno, sul piano del dolo. Come detto, la Corte è andata oltre accogliendo la mia principale tesi.
– La quarta riguarda l’improvvisa sortita della Procura di Parma, che il giorno prima della sentenza, in una ormai usuale conferenza stampa relativa ad un sequestro di canapa appena operato, aveva sostenuto che chi sostiene la liceità del commercio della canapa light, lo fa o per motivi ideologici, oppure per interessi economici. Si tratta di un’affermazione assai grave, sol che si pensi che una simile esternazione si rivolge, non solo verso movimenti o singoli cittadini, ma, soprattutto, costituisce un severo quanto apodittico giudizio su di una giurisprudenza maggioritaria che si sta affermando nel nostro paese. Non credo proprio che la Corte di Appello abbia deciso di annullare la sentenza di condanna perché ispirata dai due criteri così categoricamente citati.
– La quinta si riferisce all’estraneità della nostra linea difensiva al braccio di ferro che è in corso tra Marola e la Procura.
Ognuno decide come difendersi, ma mi permetto di rivendicare l’assenza di toni da ordalia che ho dovuto constatare da ambo le parti; noi ci siamo difesi in silenzio e parliamo solo ora, perché abbiamo superato ogni sorta di difficoltà da soli e senza comitati di sostegno. Non abbiamo mai chiesto aiuto a nessuno, né abbiamo sostenuto che l’eventuale esito negativo avrebbe potuto provocare tragiche conseguenze sul settore, perché non è vero. Il 90% dei processi si conclude con assoluzioni o con archiviazioni ed il mercato tiene, anche se incontra qualche difficoltà. Si potrà dire che l’autorità inquirente dovrebbe fare tesoro di queste sentenze e non lo fa, ma questo è un altro discorso. Rivendichiamo, quindi, di avere tenuto il procedimento nel suo alveo naturale: la giurisdizione, senza digressioni mediatiche o politiche. Abbiamo preferito la sobrietà, il silenzio ed il richiamo alle norme di diritto.
La vera notizia è la sentenza; il resto sono chiacchiere che il vento porta via.
– La sesta ed ultima riguarda l’orgoglio di avere scelto una strada processuale impervia, che all’inizio si è rivelata sfavorevole, ma che alla fine ci ha portato in vetta e ci ha dato gioia.
Altri hanno ritenuto di seguire altre opzioni. Rispetto per queste scelte.
Non penso che la sentenza della Corte di Appello di Bologna risolva definitivamente il tema della canapa light, ma, al di là della grande soddisfazione personale, penso dovrà costituire una pietra miliare per la giurisprudenza.