Ghemon – ORCHIdee (recensione)
“C’ho provato ma non posso piú restare a fare il filo
a una principessa che lascia le scarpe in giro.
Mi hai detto: cambiare non ti fa paura?
Lasciare la via sicura per la rotta oscura?
Non hai paura delle critiche?
Resta nei tuoi confini che le storie sono cicliche
ritornerai fra queste quattro mura, mi hai detto:
non hai paura che i tuoi fans ti abbandonino?
Una scimmia sola non ferma lo show
ma dimmi: quello che vedi dall’obló non ti spaventa neanche un po’?
Posso dirtelo? Vuoi che sia sincero? No.”
(Ghemon – P.T.S pt.2 – 2012)
Era appena uscito “La rivincita dei buoni” quando un ragazzo di Avellino in un’intervista mi raccontò di voler migliorare col canto. Ai tempi non avevo dato molto retta alla cosa, ma avevo sottovalutato – come tanti – l’ambizione e la caparbietà di un’artista che ai tempi si era presentato nella sua veste più timida e disincantata, seppur con risultati già straordinari.
Ghemon è apparso spesso diviso in due: da una parte una penna dal cor gentile, con un’anima buona e fin troppo pensosa; dall’altra, un uomo con le idee straordinariamente chiare, con la voglia di spaccare il mondo e allo stesso tempo estremamente sicuro del talento che si è, per nostra fortuna, ritrovato tra le mani. La storia dell’arte ci insegna che è in presenza di contrasti come questo che ci arrivano le cose migliori. Chi ha la capacità di alzare l’asticella e di iniziare delle sfide – con se stesso e con il suo pubblico – quando le vince, diventa un eroe. La verità, però, è che sin da quando ci era stato annunciato che l’ultimo disco rap di Ghemon – uno che ama l’hip hop visceralmente – si sarebbe chiamato “440/scritto nelle stelle”, di pensieri a riguardo se ne sono fatti tanti, ma credo che in molti, compreso il sottoscritto, abbiano pensato che indipendentemente dalla strada intrapresa, dalle scelte che quel ragazzo avrebbe fatto, il risultato finale sarebbe stato sempre vero, onesto e ricercato. Questa è in fondo la cosa che conta più di tutte, quando si “giudica” il lavoro di un’artista. O almeno, dovrebbe essere così per tutti.
“440/Scritto nelle stelle” non è più uscito, alla fine, e l’evoluzione naturale di Ghemon lo ha portato a produrre “ORCHIdee”; un disco raro, se pensiamo ad un solista e sicuramente unico nel suo genere in Italia. Ghemon canta, tanto e bene, il rap appare a tratti semplificato e le liriche più dirette, ma a fare la differenza è, come prevedibile, sicuramente la musica. “ORCHIdee” è un disco pieno, interamente suonato da musicisti di grande talento, tra i quali spiccano i nomi di Tommaso Colliva, Rodrigo D’Erasmo e Pat Cosmo, che non definiremo “dei Calibro 35”, “degli Afterhours” e “dei Casino Royale”, visto il loro contributo a buona parte della produzione musicale indipendente del nostro paese. Ghemon ha la possibilità di esprimersi su un ventaglio sonoro molto ampio, tra morbide atmosfere jazz e soul, pianoforti e archi, riuscendo a dare all’insieme un’anima, la sua, curando il tutto in ogni minimo dettaglio. Quando finisce la struggente tripletta formata da “Fuoriluogo Ovunque”, “Il Mostro” (forse il pezzo più “classico” dell’intero disco) e la bellissima “Smetti di Parlare” – pezzo interamente cantato (peraltro divinamente) e decisamente il mio preferito dell’album, assieme a “Crimine” – la voglia di tornare indietro è tanta, ma è molto meglio lasciarlo proseguire fino a quando “Veleno” e “L’ultima linea” ci lasceranno con l’amaro in bocca che si prova quando le belle esperienze finiscono troppo presto, su sonorità da godersi ad un tramonto sul lungomare.
“Perchè io non mi sono mai seduto.
Perché certe volte era troppo ma ci ho creduto.
Perché mi sono sempre ripetuto che: nessuno vale quanto te.
E ora loro mi stringono la mano, mi chiamano dall’altro marciapiede e fanno: bravo!
Mi dicono lo sape- sape- sapevamo, mi dicono lo sape- sape- sapevamo.
Mi dicono grazie, grande! Sempre grintoso! Cerca di salutare, quando sarai famoso, mi dicono lo sape- sape- sapevamo, mi dicono lo sape- sape- sapevamo.“
(Ghemon – Nessuno Vale Quanto te – 2014)
“ORCHIdee” è esattamente quello che ci si aspettava da Gianluca. Come già detto, non avrebbe mai potuto essere un disco deludente, ma per quello che è il risultato finale è sicuramente il passaggio meno traumatico possibile rispetto a quanto si potesse ventilare. Rappresenta in fin dei conti la naturale evoluzione dello stile di Ghemon, un’artista che ha saputo fondere le sue due passioni, le sue due anime, in qualcosa di armonico e senza nessuna sbavatura. In un disco che saprà farsi amare da chi lo ha sempre amato e che ci auguriamo possa proiettarlo in una radiosa carriera, nella quale possa continuare ad alzare la sua asticella ed evolversi, come è giusto che un artista di classe e talento debba avere il desiderio di fare. E come descritto in questi versi, anche io personalmente mi sento di dirgli “bravo”, perché questo è il succo: aver investito sul proprio talento, facendosi forza quando le cose andavano peggio ma soprattutto non sedendosi quando invece andavano meglio, iniziando questa sfida, è una lezione molto importante della quale dover essere orgogliosi. E questa sfida Ghemon la sta vincendo ma la verità è che anche noi tutti lo sape- sape- sapevamo. E probabilmente anche lui.
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Robert Pagano