La geopolitica del gas
Il gas è ancora oggi la risorsa energetica più importante al mondo. Per questo ha notevoli implicazioni geopolitiche e la guerra in Ucraina lo ha reso lampante. Ne abbiamo parlato con Re:Common
«Quando gli stati saranno liberati dall’importazione di petrolio, carbone e gas, la geopolitica sarà rivoluzionata». Lo scrive Kingsmill Bond nell’ultimo rapporto del think tank Carbon Tracker. Un assunto difficile da contestare, basta vedere come il gasdotto Nord Stream 2 tra Russia e Germania sia stato utilizzato come arma dell’Occidente contro Putin.
Ma in generale, a sette anni dallo storico Accordo di Parigi, il peso del gas nell’Unione Europea non ha mai smesso di crescere. II gas, insieme al petrolio, continua a essere una delle principali fonti di produzione di energia elettrica per un continente che ne è fortemente dipendente tanto che, grazie alla tassonomia verde che l’Ue è vicina ad approvare, nonostante emetta grandi quantità di C02 e metano responsabili della crisi climatica, rimarrà una fonte praticabile per la transizione energetica almeno fino al 2050.
D’altronde, come si diceva, chiudere il prima possibile con le fonti fossili significherebbe cambiare gli equilibri globali, dato che molte delle grandi corporation e dei governi ad esse collegati vedrebbero ridimensionato il loro ruolo nello scacchiere mondiale, non solo energetico ma anche economico e finanziario.
Di tutto questo abbiamo parlato con Re:Common, un’associazione che smaschera i perni su cui ruota l’economia dei combustibili fossili, un sistema responsabile di disuguaglianze sociali, migrazioni forzate e dell’aggravarsi della salute dell’ambiente e delle persone.
Il sistema delle fossili acuisce da sempre diatribe geopolitiche e guerre, incide negativamente sulla vivibilità del pianeta e porta devastazione e ingiustizie. Come cambierebbe la geopolitica mondiale se il pianeta puntasse su fonti di energia alternativa?
Servirebbe una sfera di cristallo per capirlo. Possiamo dire che se non si cambia il modello di produzione, distribuzione e consumo di energia – anche ridefinendo chi decide nel merito della materia energetica, e in nome e nell’interesse di chi – qualunque fonte di energia rischia di portare conseguenze importanti.
Oggi l’Europa non può fare a meno del gas e abbiamo visto le implicazioni della chiusura del gasdotto Nord Stream 2 utilizzata come arma contro la Russia. Questo aspetto quanto influisce sulla sua politica internazionale?
Nel 2013, dopo l’ultima crisi del gas tra Russia e Ucraina, l’Ue ha spinto per creare un corridoio di fornitura alternativo, che ci potesse collegare ai ricchi giacimenti del Turkmenistan. Una partita mezza fallita, che ha portato alla costruzione del Corridoio sud del gas (di cui il TAP è l’ultima sezione) rimasto però monco del collegamento tra Azerbaigian e Turkmenistan. Ora le riserve dell’Azerbaigian sembrano appena sufficienti a garantire 10 miliardi di mc di gas all’anno per l’Ue, cioè circa il 2% della domanda attuale. Guardare alla dipendenza dal gas ci permetterebbe di ragionare sulla costruzione di alternative reali e non di palliativi che potrebbero avere l’unico effetto di generare nuove dipendenze e nuove vulnerabilità. Senza parlare della crisi climatica che bussa rumorosamente alle nostre porte e nessuno ascolta. Eviteremmo così di cadere in balia delle fluttuazioni del mercato e di altri fornitori, che siano gli USA con la spinta drammatica all’export globale di gas estratto con il metodo del fracking (ultra sovvenzionato da Washington, presentato come meno caro, ma in realtà con prezzi in aumento), o che siano paesi come la Libia, l’Egitto, l’Algeria, Israele, la Nigeria, il Mozambico.
L’area del Mediterraneo, in particolare, resta strategica.
Nella regione est del Mediterraneo ci sono i più grandi giacimenti di gas non ancora esplorati. Si trovano a migliaia di metri sul fondo del mare, nelle acque di Israele, Cipro e Egitto. Come abbiamo raccontato anche nel documentario che abbiamo prodotto di recente Cipro, il gas della discordia, parliamo di una delle regioni più “calde” con tensioni antiche tra Turchia e Cipro, l’occupazione israeliana dei territori palestinesi, la repressione in Egitto con costanti violazioni dei diritti umani. Secondo molti questo nuovo gasdotto potrebbe essere il detonatore per nuovi conflitti, senza parlare dell’impatto sull’ambiente e sul clima che avrebbe l’estrazione e l’utilizzo di trilioni di metri cubi di gas. Come per il Corridoio sud del gas, ci viene descritto come progetto energetico prioritario dell’Ue, per ridurre la dipendenza dalla Russia, ma è davvero così? Eastmed dovrebbe trasportare 10 miliardi di mc di gas all’anno, troppo poco per giustificare la sua strategicità. Di recente il governo degli Stati Uniti ha fatto un passo indietro sul gasdotto, seguito da quello greco. Considerato tutto, forse il gioco non vale la candela.
In Italia la finanza, sia pubblica sia privata, non ha smesso di investire sulle fonti fossili. Potete farci un esempio lampante, ma di cui si parla poco sui grandi media?
Sin dal 2019 l’Italia si prepara alla chiusura delle centrali a carbone nel peggiore dei modi. Per esempio, una richiesta conservatrice del gestore della rete ad alta tensione – Terna – ha spinto ogni azienda produttrice di energia elettrica a proporre quasi 18 GW di nuove centrali a gas, scelta del tutto fuori tempo massimo rispetto ai cambiamenti climatici e agli impegni che il paese ha preso. Tutto questo è stato spinto da un meccanismo di finanziamento pubblico che si chiama Capacity Market, che finanzia le società per costruire e tenere spente le centrali come riserva nazionale in casi di anomalie nella produzione da altre fonti. Perché costruire “un paracadute di fossili” invece di decisi investimenti sulle rinnovabili e sulle reti di distribuzione elettrica?
Il green washing è una strategia molto diffusa tra le banche, no?
Sì. Le nostre “banche di sistema” utilizzano la strategia del green washing per mascherare ingenti investimenti all’industria fossile. Ad esempio, solo nel 2020, Intesa Sanpaolo ha quadruplicato i propri finanziamenti al carbone, il più inquinante tra i combustibili fossili. Un trend che va di pari passo con il supporto all’industria fossile da parte della finanza pubblica, in particolar modo di SACE, l’agenzia italiana per il credito all’esportazione. Tra i casi più recenti ed eclatanti, ad esempio possiamo menzionare la copertura assicurativa che SACE, a pochi giorni dalla fine della COP26, ha confermato per il finanziamento del progetto Arctic LNG-2 da parte di Intesa Sanpaolo e di Cassa Depositi e Prestiti. Arctic LNG-2 è un mega-progetto di liquefazione di gas naturale della società russa Novatek, in fase di costruzione nella penisola di Gydan, uno dei territori più a rischio della già vulnerabile Regione Artica.
Poi ci sono le campagne di comunicazione delle grandi corporation fossili che si presentano come green e sostenibili, mentre continuano a investire nell’espansione dell’industria fossile.
Sì. Snam, ad esempio, si presenta come attore centrale nella transizione, parla di riduzione delle emissioni e di sostenibilità, mentre investe nell’espansione della rete del gas e acquisisce quote in infrastrutture strategiche a livello globale, dai gasdotti su lunga distanza (come il gasdotto TAP) ai terminal LNG.
Perché Re:Common ha scelto l’abbandono delle fonti fossili come mission?
Occorre un impegno serio a ridisegnare la produzione e distribuzione dell’energia e occorre una seria politica che punti al risparmio energetico per imprese e singoli cittadini. Serve anche farsi carico collettivamente di avviare questo cambiamento, perché non crediamo che saranno i governi a instradarlo.
A cura di Mena Toscano
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