Ganjika, tra meditazione e medicina tradizionale indiana
Le prime testimonianze di utilizzo della canapa nell’era precristiana risalgono a circa 6mila anni fa in Cina, India e Persia. La pianta veniva venerata e sfruttata per il suo valore terapeutico, in particolare nelle zone con climi tropicali e subtropicali, dove annoverava un più alto contenuto di principi attivi rispetto ad altre zone.
In India, la cannabis è sempre stata molto diffusa e utilizzata in campo medico e a scopo ricreativo, sia per i legami intrattenuti con la religione e le tradizioni culturali, sia per le proprietà tessili e alimentari di cui disponeva. L’Atharva Veda (lett: il Veda degli Atharva) è un’importante raccolta di testi, una delle quattro suddivisioni canoniche dei Veda (le sacre scritture) e, oltre a trattare pratiche ayurvediche legate alla medicina tradizionale (e sempre più diffuse anche in Italia al fianco dello yoga), parla della canapa come una delle cinque piante sacre, descrivendola come fonte di felicità, donatrice di gioia e portatrice di libertà, non solo al livello religioso.
In seguito anche l’Unani, la medicina tradizionale persiana di origine greco-araba, approdò in India tra il XII e il XIII sec. e trovò diversi punti in comune con l’Ayurveda indiano che aiutarono le due pratiche e le due culture ad entrare in contatto ed arricchirsi a vicenda. Uno di questi tratti condivisi era appunto l’utilizzo della cannabis all’interno della farmacopea tradizionale.
Intorno al 1000 a.C. in India la cannabis veniva utilizzata per diversi scopi terapeutici: come analgesico contro la nausea, il mal di testa o il mal di denti e per i suoi effetti antiepilettici contro epilessia, tetano e rabbia. Era funzionale come antinfiammatorio e antibiotico per scongiurare le infezioni epidermiche, la tubercolosi e lo streptococco; come ipnotico, tranquillante contro l’ansia e l’isteria; come anestetico, antiparassitario, antispasmodico, digestivo e stimolante dell’appetito, diuretico, afrodisiaco e anafrodisiaco; per trattare bronchiti e asma. Tutti questi effetti non sono puramente credenze mistico-religiose, ma trovano riscontro anche nella scienza medica contemporanea.
I preparati venivano principalmente realizzati in tre diversi modi, a seconda delle necessità. Il Bhang è la forma più leggera, in versione liquida ricavata dalle foglie. La Ganja (sanscrito: ganjika, tamil: kanja), la forma più utilizzata, è un impasto ricavato dai fiori, mentre il Charas, il più potente estratto, proviene dalla resina delle piante femmine.
Inoltre, la canapa era ritenuta sacra anche oltre l’Himalaya, in Tibet. La botanica era il fulcro della farmacopea tibetana e la canapa era abbondante nella regione. Nel buddismo tantrico la cannabis veniva utilizzata per facilitare la meditazione e controllare il dolore fisico e spirituale. È quindi accomunata per agevolare una pratica, la meditazione, che a lungo è stata screditata dalla scienza occidentale, ma che secondo studi contemporanei pubblicati sulla rivista specialistica Journal of Neuroscience, è in grado di ridurre la sensazione del dolore del 40%, un dato fenomenale se consideriamo che i normali antidolorifici lo riducono in media del 25%. È ormai risaputo che anche la cannabis ha grandi effetti antidolorifici. Sui malati di fibromialgia, per esempio, uno studio ha dimostrato che i suoi principi attivi sono in grado di ridurre il dolore in media del 67% senza gravi effetti collaterali e senza creare dipendenza come spesso accade per gli antidolorifici a base oppiacea.
La canapa per gli indiani è un po’ come l’uva e il caffè per gli italiani o il tè per i cinesi. In India solo il trasporto è illegale ma il possesso, la coltivazione e la vendita sono praticamente accettati e regolati dalla legge. Basti pensare che il governo dispone di centri in cui vende liberamente il Bhang, soprattutto nelle città sacre, al pari dei fiumi di “sangue di Cristo” che sgorgano nelle nostre cerimonie. Se l’egemonia culturale della società globale non pendesse pericolosamente nella parte occidentale della bilancia, forse berremo più tè e meno caffè. Forse non sembreremo più dei drogati nell’affermare che il nostro prezioso vino (pur vantando benefici) non solo nasce a scopo ricreativo e rituale ma è persino potenzialmente più dannoso rispetto alla loro ignobile marijuana.
Gian Luca Atzori
È laureato in Lingue e culture orientali a La Sapienza. Attualmente vive a Pechino dove ha studiato tra la UIBE e la BFSU, e lavora per una compagnia internazionale. Collabora con il Fatto Quotidiano, China Files e Dolce Vita.