Per un futuro sostenibile la chiave è sporcarsi le mani
In una filosofia mondiale in cui il lusso è diventato una religione a cui aspira la maggioranza, come si fa a spiegare il punto di non ritorno, il concetto di risorse limitate, la decrescita, la frugalità?
Da una parte ci sono orde di giornalisti pagati per scandagliare la vita dei vip, intessere le lodi della nuova moda che ci vuole a gennaio senza calze e con mocassini aperti al tallone – un’orda di Flintstones vestiti da beat – mentre le stesse testate buttano dentro a fasi alterne qualche articolo sulla decrescita come fenomeno di costume, una curiosità, nient’altro che il solito fenomeno new age di quattro utopisti ridicoli (forse perché dotati di calze in gennaio).
Invece la decrescita, ma soprattutto la transizione e la resilienza, deve diventare ora più che mai un fenomeno di massa, anche oggi che il fenomeno di massa oscilla tra i jeans con il risvoltino e il piede nudo nel mocassino mozzato. Il problema è quello di riuscire a spostare le masse verso azioni concrete, cambiamenti importanti, una frugalità del pensiero e non solo dell’aspetto materiale.
Possiamo fare grandi discorsi sulle reti di transizione, sulla resilienza, sulle città in transizione e sui circoli della decrescita, ma staremo sempre parlando di poche persone, più di ieri ma pochissime rispetto a quelli che in questo momento stanno uscendo dall’ipermercato con il carrello strapieno di porcheria bombata di coloranti e conservanti. Però è a queste persone che bisogna arrivare, altrimenti è inutile, resteranno scelte limitate e ininfluenti.
Alla gente si arriva a livello locale, personale. È un lavoro lungo e incessante, che richiede un impegno e una costanza fuori dal comune, che non dà risultati in termini di visibilità, notorietà e fama. Si tratta di far parte di una comunità, anche in città, e influenzarla con la propria esperienza. Annullare il proprio ego narcisista, per costruire un bene comune.
La chiave è fare, sporcarsi le mani di terra. Tantissimi anni fa, abitavo ancora in un appartamentino in Brianza e mi venne in mente di coltivare anche verdure sul balcone. Oggi l’orto sul balcone è tornato in auge e lo fan tutti, ma allora era una cosa un po’ assurda agli occhi di tutti, non c’era la crisi, eravamo tutti ricchi, ai migliori laureati le aziende telefonavano a casa per proporre posti di lavoro. Ho cominciato a parlare anche online di questo mio balcone con le zucchine, i siti nascevano in quel momento ed erano cose per pochi, internet era ancora una parola stranissima. Un giorno mi ha contattata una radio per parlare di questo mio piccolo orto sul balcone, poi è stata la volta di una rivista di nicchia e così via, finché un giorno stavo spiegando ad altre persone come si fa, poi sono nati i collettivi, gli orti sociali. Oggi è un fenomeno piuttosto diffuso, indipendente, che si allarga e continua da sé, di vita propria. Ma è la conferma di quale sia la via corretta per convincere gli altri a seguirci nelle buone pratiche: fare. Fare in prima persona. Non il parlare, come tanti di quegli economisti e filosofi che si riempiono la bocca di teorie sulla decrescita e il giorno dopo li vedi in coda alla cassa del Carrefour, non al GAS o a zappare l’orto! Fare. La gente si coinvolge con il fare. La gente siamo noi, voi vi fareste convincere che sbattendo le braccia si vola, da qualcuno che ne parla e basta? Lo volete vedere, giusto? Se lui ci riesce, lo fate anche voi. Ecco, anche il mondo si cambia con il fare. La gente, per quanto stupidi possano essere alcuni, si accorgerà sempre della differenza tra un parlatore vanesio e una persona concreta.
Mi è piaciuta molto una risposta di Madre Teresa di Calcutta a un intervistatore della BBC che le chiedeva come avesse fatto in pochi anni a ritrovarsi con una congregazione di migliaia di persone votate a curare i lebbrosi che prima nessuno voleva nemmeno toccare. Ha risposto: “Con la parola e con l’esempio”. Semplice. È la formula migliore, quella che sortisce più effetto. Noi possiamo usarla per cambiare il mondo. Ognuno di noi. Ora.
In un numero precedente (il numero 60, scaricabile gratuitamente dal nostro sito, ndr), avevo parlato di frugalità come soluzione. Va applicata ad altre soluzioni, perché il cambiamento non sia più solo personale ma comunitario, poi locale, poi regionale, sempre più esteso fino ad incontrarsi con gli altri gruppi di cambiamento e farne un fenomeno globale. Per questo insisto sempre su una mossa fondamentale per il cambiamento, che ognuno deve fare: entrare in una rete di transizione. Cercare quella più vicina o crearne una, perché anche attorno a sé si diffonda la volontà di cambiamento e la sostanza del fare le cose quotidiane in modo diverso, dallo spostarsi in bici al fondare un GAS.
Le reti di transizione, o transition network, sono composte da città in transizione (transition towns). La transizione, che fa parte del complesso discorso della decrescita, è stata inizialmente un movimento a sé, creata dall’ambientalista britannico Rob Hopkins nel 2005. L’obiettivo è, testualmente “traghettare la nostra società industrializzata dall’attuale modello economico, profondamente basato su una vasta disponibilità di petrolio a basso costo e sulla logica di consumo delle risorse, a un nuovo modello sostenibile non dipendente dal petrolio e caratterizzato da un alto livello di resilienza. Analizzando più a fondo i metodi e i percorsi che la transizione propone, si apre un universo che va ben oltre questa prima definizione e fa della transizione una meravigliosa e articolatissima macchina di ricostruzione del sistema di rapporti degli uomini tra loro e degli uomini con il pianeta che abitano” (www.transitionnetwork.org)
Questo è il modello che dobbiamo adottare per veder scomparire il punto di non ritorno, raccogliendo man mano altre persone, incontrando altri gruppi e facendo così cambiamenti sia a livello locale che nazionale e mondiale.
Molte soluzioni possono essere trovate a livello locale dalla collaborazione tra singoli e tra gruppi. In questo noi italiani siamo anche avvantaggiati da secoli di storia in cui l’arte di arrangiarsi si è scolpita nel nostro DNA: siamo in grado di pensare soluzioni alternative e aggirare ostacoli come pochi altri popoli. Sfruttiamo questa potenzialità e usiamola per aggirare normative obsolete, prepotenza delle multinazionali e problemi contingenti. Gruppi locali di transizione hanno già dimostrato di poter arrivare a risolvere problemi di alto livello, come la disoccupazione di intere zone, la rivalorizzazione di territori, l’instaurazione di una eco-economia che si preoccupi di salvaguardare il pianeta e le persone, non il guadagno di un’oligarchia.
Secondo la pianificazione di Murray Bookchin, l’anarchico ecologista che resta il maggior esponente dell’ecologia sociale, il nostro fine dovrebbe essere quello di arrivare a un’organizzazione sociale con uno schema piramidale di bioregioni. È lo stesso modello funzionale che riprende l’economista Serge Latouche in “La scommessa della decrescita”. Eliminare quindi il sistema delle nazioni e delle confederazioni di nazioni, sostituendolo con una organizzazione confederale di bioregioni nata da gruppi di persone, non governata da gruppi politici asserviti all’oligarchia finanziaria.
Oggi stiamo assistendo alla guerra tra il potere economico globale di questa oligarchia finanziaria e le popolazioni che ne sono vittime: distrugge le loro vite con un minore potere di acquisto e un innalzamento del desiderio di acquisto, distrugge il mondo con un consumo sregolato delle risorse, uno spreco esponenziale che ci lascia sempre più poveri.
L’unica soluzione concreta per uscire da questa situazione è che ognuno di noi si impegni in una transizione, che entri in un gruppo o ne fondi uno, che questi gruppi formino una rete bioregionale e da lì si muovano insieme, con la forza dei numeri e il potere del non-acquisto. Bisogna uscire dal sistema degli stati-nazione, costruendo un sistema auto-determinato di bioregioni il cui fine sia il benessere del pianeta e dell’uomo, in tutti i suoi aspetti. Si può. Ciò su cui concordano tutti gli studiosi ed economisti, infatti, è che abbiamo sufficienti risorse per tutti in uno sfruttamento condizionato al benessere del pianeta, mentre non ne abbiamo abbastanza in un orizzonte di sfruttamento condizionato solo dal capitalismo.