Fritz da Cat – Fritz (recensione)
Qualche giorno fa “Fritz” festeggiava l’ottava posizione nella classifica generale di vendite. Se avessero detto al suo creatore che sarebbe riuscito nell’impresa a quattordici anni dal suo capolavoro, 950, probabilmente nemmeno lui avrebbe messo la firma. Dal 99, e dopo il progetto a sei mani con Fede e Fibra in Basley Click, Fritz da Cat ha continuato a seguire in maniera indiretta l’hip hop, accantonando per un po’ la produzione musicale e definitivamente un suo grande compagno di viaggi, l’Akai 950. Negli anni ha creato un marchio di bombolette spray e, per chi non lo sapesse, ha contribuito a sostenere e distribuire il progetto editoriale di Moodmagazine, in un periodo in cui l’hip hop italiano di certo non aveva la risonanza di adesso, tutt’altro. Imputargli di essere tornato per la condizione di comodo in cui ora versa il genere, suona piuttosto irriconoscente.
Fritz da Cat è un pezzo di storia del rap italiano. È la mente musicale di alcuni brani immortali, sopravvissuti incolumi alle evoluzioni di tempi e tendenze. Piccoli capolavori che risuonavano come acqua fresca nel deserto qualitativo che è stato l’hip hop del nostro Paese nei primi 2000 e che mai più sono stati rimossi dalla memoria storica. Fritz da Cat è il beatmaker italiano per eccellenza: un free lance, il cui nome non si è mai legato indissolubilmente a quello di un rapper. Una roba piuttosto inusuale tra i colleghi connazionali, laddove è venuto a mancare un suo erede in quanto a carisma. Un disco di Fritz da Cat ha un significato cruciale non solo per la portata emotiva, ma anche perché funge da specchio generazionale del rap: in “Fritz” padri e figli del rap italiano si danno idealmente il cambio e quel poco che è rimasto dei tempi di “950” –tipo il paio di sequel confezionati da Tormento e Turi nella versione 2.0 di “Se non fumassi” e “Schiaffetto correttivo”- lascia campo alla new school italiana.
Inevitabilmente, il profitto del disco solista di un producer risulta sempre suscettibile della prova degli mc’s: il divario tra un lavoro epocale ad uno meno intenso può intercorrere tra un brano di Kaos e la strofa di un LowLow od un Gemitaiz, ad esempio. Ciò che è lampante è che lo stile di Fritz da Cat sia rimasto sobrio e pulito come un tempo, pur adeguandosi a strumentazioni diverse dagli inizi: suoni caldi e ben congegnati, senza mai dare l’impressione di cercare il colpo ad effetto. Insomma, la controprova di come si possa creare grande musica con rigore e metodi tradizionali. I beats del Civitelli hanno un marchio e tutti i rapper chiamati a raccolta ne hanno rispettato l’aroma, talvolta addolcendo alcuni spigoli pur di assecondare il mood delle strumentali. È il caso, ad esempio, di Noyz Narcos: il romano ha trovato un’alchimia col musicista milanese come forse mai prima d’ora e l’ha fatto su sonorità molto più morbide rispetto a quelle su cui è solito sputare il suo flow amaro.
“Rimo sempre accanito/ sopra al beat più ambito”, Fibra dixit: performare su una produzione così ingombrante è una responsabilità non da poco ed in linea generale nessuno degli mc’s è parso risentirne. Gli ospiti tutti hanno sfruttato la rilevanza del tappeto musicale per colpire con brani che ne rispecchino appieno le peculiarità: dal sarcasmo spinoziano di Turi a quello sempre fiero di Egreen, trovando lo spirito un po’ trash di Danti. Colpiscono le rivendicazioni in antitesi di Clementino e Dargen, quanto il talento di Big Joe, nel tappeto concesso a Marsiglia partorito a quattro mani. “Fritz” in media ha buoni pezzi, su tutti “With or without it”, il vero brano-culto, ma probabilmente non sembra avere molto che possa rimanere per anni ed anni nella memoria storica del rap italiano. Segno del momento vissuto dall’hip hop qui da noi, di cui “Fritz” si propone come lucido affresco.
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