Francia chiama Italia: la guerra alla droga come scusa per aumentare i poteri delle forze dell’ordine
Dalla Francia all'Italia, la giustizia come pretesto per giustificare leggi che rafforzano la repressione e limitano la libertà civile
Due Paesi, due governi, due bandiere. Ma stesso copione. In Francia, come evidenziato da un’inchiesta di Osservatorio Repressione, la lotta al narcotraffico sta diventando il cavallo di Troia perfetto per rafforzare sorveglianza, poteri speciali e controllo della polizia.
Allo stesso modo, in Italia, l’ultimo decreto sicurezza approvato dal governo Meloni sta andando nella stessa direzione, mascherando sotto l’etichetta di “ordine pubblico” un modello sempre più repressivo.
Infatti, oltre a vietare la cannabis light (e radere al suolo un settore da migliaia di lavoratori e milioni fatturato annuo), punta ad aumentare i poteri delle forze dell’ordine.
A questo punto porsi delle domande è inevitabile: non è che Francia e Italia stanno seguendo la stessa scorciatoia repressiva?
FRANCIA: IL PARADOSSO DELLA “GUERRA ALLA DROGA”
Aumentare il potere di sorveglianza. È questa la strada intrapresa dal governo di Macron per combattere la criminalità legata agli stupefacenti.
Uno scenario in cui droni, telecamere intelligenti, intercettazioni senza autorizzazione giudiziaria e maggiore autonomia delle forze di polizia diventano strumenti necessari per una guerra alla droga efficiente, che però negli ultimi anni si è dimostrata un fallimento senza precedenti.
Il risultato più evidente di questa politica orwelliana infatti non è la riduzione del traffico illecito, bensì un controllo capillare sui quartieri popolari, spesso già stigmatizzati, e un ulteriore criminalizzazione del disagio sociale.
ITALIA: IL DECRETO SICUREZZA COME VERSIONR 2.0 DELLA REPRESSIONE
In Italia, il nuovo decreto sicurezza approvato dal governo Meloni si incastra perfettamente nella visione francese. Non solo per il giro di vite su proteste e migranti, ma per tutta la serie di misure che aumentano in modo preoccupante l’impunità e l’onnipotenza delle forze dell’ordine. Vediamole nel dettaglio.
DIFESA LEGALE GRATUITA PER GLI AGENTI
Lo Stato italiano si impegnerà a coprire fino a 10mila euro per fase processuale a chi tra agenti, militari e vigili del fuoco venga indagato per fatti di servizio.
Una misura che, in teoria, tutela chi opera in situazioni complesse. Ma che, nella pratica, rischia di trasformarsi in una sorta di scudo preventivo contro la responsabilità.
In Francia la tendenza è simile: le forze dell’ordine godono già di una forte copertura politica e istituzionale, tanto che le denunce per violenze poliziesche raramente arrivano a sentenza. In Italia, con il decreto sicurezza, si fa un passo in più. Lo Stato pagherà anche gli avvocati.
BODYCAM E SORVEGLIANZA: MA CHI GUARDA CHI CI GUARDA?
L’introduzione delle bodycam potrebbe sembrare una mossa trasparente. Ma se non accompagnata da regole chiare sull’accesso, l’uso e la gestione dei dati, rischia di diventare l’ennesimo strumento unilaterale di controllo, sfruttato non tanto per registrare eventuali abusi quanto per giustificare degli eventi repressivi.
D’altra parte, il governo francese ha autorizzato l’uso massiccio di droni e telecamere intelligenti per sorvegliare manifestazioni, quartieri popolari e aree sensibili.
In Italia, le bodycam rappresentano l’equivalente più diretto: un occhio sempre accesso sulle strade. Ma attenzione: in entrambi i casi, manca un serio dibattito pubblico su chi controlla questi strumenti, come vengono archiviati i dati, e soprattutto chi ne ha accesso.
INFILTRATI NELLA MAFIE: IL BISOGNO DI STABILIRE LIMITI PRECISI
Il decreto conferma anche una delle disposizioni più controverse: gli agenti possono infiltrarsi in associazioni mafiose, sovversive o terroristiche nell’ambito di operazioni sotto copertura.
Un’eccezione che apre a scenari inquietanti, soprattutto in assenza di controlli, verifiche esterne e limiti operativi chiari. Dove finisce l’inchiesta e inizia l’abuso? Il confine tra lotta al crimine e crimine stesso rischia di diventare sempre più sottile.
PROTESTARE DIVENTA UN CRIMINE
Fino a 6 anni di carcere. Sono questi le nuove sanzioni introdotte dal decreto sicurezza per chi manifesta contro grandi opere o attraverso blocchi stradali.
Più che una mossa per tutelare la sicurezza pubblica però, sembra un attacco frontale al diritto costituzionale alla protesta, che rischia di trasformare ogni piazza in un campo minato giuridico.
CITTADINANZA CONDIZIONATA: LA NUOVA FRONTIERA DEL CONTROLLO
Infine, tra le misure più simboliche e pericolose c’è l’estensione del termine per revocare la cittadinanza italiana: da tre a dieci anni dalla condanna.
Revoca che colpisce principalmente i cittadini naturalizzati e le persone condannate per determinati reati legati al terrorismo, all’associazionismo mafioso o a minacce gravi all’ordine pubblico.
Parallelamente in Francia, già dopo gli attentati di Parigi del 2015, il governo ha provato – senza successo – a semplificare il processo di revoca della cittadinanza per i binazionali condannati per terrorismo.
Attualmente, la legge francese permette la revoca per i cittadini naturalizzati da meno di 10 anni (15 anni in caso di crimini contro gli interessi fondamentali della nazione) condannati per reati gravi.
ITALIA E FRANCIA: LA SICUREZZA PER GIUSTIFICARE LA REPRESSIONE
In entrambe gli Stati, il paradigma della sicurezza viene prima della giustizia sociale, del diritto alla dissidenza e della tutela dei più deboli. La “guerra alla droga” diventa solo un modo per giustificare misure che aumentano il potere di controllo e riducono gli spazi di libertà.
Davanti a queste iniziative è arrivato il momento di alzare il capo e porci una domanda più ampia (e urgente): che tipo di società vogliamo costruire? Una basata sul controllo o sulla giustizia e la democrazia?