La falsa frontiera tra psicofarmaci e psichedelici
Secondo Piero Cipriano, psichiatra controcorrente, è giunto il tempo di abbattere questa differenza e di tentare anche in Europa la cura dell’ayahuasca e non solo
Da poco è in libreria il nuovo libro di Piero Cipriano, “Ayahuasca e cura del mondo” uscito per Politi Seganfreddo Edizioni, un testo dirompente che arriva dopo una serie di volumi in cui Cipriano si era impegnato sistematicamente a demolire le certezze della psichiatria contemporanea, partendo proprio dalla sua esperienza diretta di medico che da anni passa le sue giornate nelle corsie degli ospedali. Questa pubblicazione non è più solo di critica dell’esistente, è lo sguardo oltre alla cura pensata in modo etnocentrato, è una via oltre le “nostre” certezze occidentali. In questo breve ma intenso libro l’autore unisce misticismo e cura psichiatrica e afferma che la differenza tra psicofarmaci e psichedelici è una falsa frontiera.
Le domande a cui cerca di rispondere in queste appassionate pagine sono tante ma la principale è se sia possibile curare i disturbi psicopatologici con l’ayahuasca. Un viaggio tra i territori della sperimentazione di un medico che ci ha abituato negli anni alla sua irregolarità, sovversione delle norme, insomma al suo essere un anarchico riluttante.
Da quasi un decennio sei diventato il punto di riferimento per chi è critico della psichiatria contemporanea (quella che hai chiamato “manicomio chimico”) e in questa tua nuova pubblicazione decentri lo sguardo dello psichiatra occidentale verso qualcosa che ha fondamenta completamente diverse. Sei andato oltre l’etno-psichiatria: potremmo dire forse esagerando o forse no, verso la via sciamanica?
Noi psichiatri, tutti dico, i duecentomila psichiatri del pianeta, gli undicimila psichiatri di questo paese, non facciamo mica gli psichiatri, noi non sappiamo neppure che cosa sia la cura psichica, ma continuiamo a usare come tanti burattini i farmaci che Big Pharma ci mette a disposizione, rispetto ai quali ci alleva, ci istruisce, ci compra, e distribuiamo pasticche quotidiane e siringhe mensili e convinciamo le persone che questa sia la cura. Ma non curiamo l’anima. Imbrigliamo il corpo, se mai. Così dal 2018 decido di incamminarmi sulla via della ricerca psichedelica. All’inizio leggo tutto ciò che era stato scritto sull’argomento. Dopo passo alla fase successiva. Vedere sul campo. E qui colgo l’abissale differenza tra le – semplifichiamo – tre vie in cui la psichedelia può declinarsi: la via psiconautica di chi fa da sé, gli entronauti, gli esploratori solitari del proprio mondo psichico. Poi la via scientifica, quella dei terapeuti psichedelici. E questa subito mi ha mostrato alcuni dei suoi limiti. Perché è una via molto ma molto più ingenua, scarsa di sapere, assolutamente novizia, rispetto alla via che viene da molto lontano: la via ancestrale, o curanderica, o per dirla con un’espressione ormai un po’ troppo inflazionata: la via sciamanica.
Quale è l’ipotesi sciamanica dei disturbi psichici?
Prende ovviamente dalle esperienze e dagli scritti di antropologi alcuni dei quali hanno passato la linea di confine e si sono fatti essi stessi sciamani – penso a Michael Harner, a Gerardo Raichel-Dolmatoff, a Jeremy Narby, oppure a terapeuti che operano da sciamani, lo psichiatra Claudio Naranjo, ad esempio, o Carlo Zumstein, o Jaques Mabit. Ma prende anche da anti-psichiatri come Ronald Laing che avevano fatto – con Timothy Leary – esperienze psichedeliche. Aggiungo Piero Coppo, altro grande psichiatra italiano purtroppo da poco venuto a mancare. Coppo parte dal discorso culturale. Ci sono culture provviste di sofisticate tecnologie del sacro, dispositivi per entrare e uscire dagli stati non ordinari della coscienza. Con tecniche esogene (piante) o tecniche endogene (respiro, meditazione, digiuno). Queste culture – che agli occhi dei moderni occidentali appaiono primitive – Coppo le definisce polifasiche, perché approvano diversi stati di coscienza. Coltivano l’abilità di passare dall’uno all’altro. Sono le culture impregnate di sciamanismo. Viceversa, la nostra cultura, moderna, occidentale, è rigidamente monofasica. La dittatura dello stato di coscienza ordinario ha espulso dal nostro brodo culturale gli altri stati di coscienza, che sono stati patologizzati, e sono diventati psicosi, schizofrenia, isteria, disturbo dissociativo, personalità multipla. Ecco come Piero Coppo spiega i disturbi psichici nel mondo occidentale: molto probabilmente sono degli stati non ordinari della coscienza che, per il set e setting in cui si manifestano (cioè fuori da un dispositivo ritualizzato ma eventualmente dentro un reparto psichiatrico) diventano stati di coscienza senza ritorno (cioè stati psicotici). La sua proposta? Imparare a “passare da una trance selvaggia a una trance liturgica” affidandosi al sapere dei “signori del limite”, alle tecniche delle “guide della soglia”. Ovvero agli sciamani o – in occidente – ai terapeuti psichedelici. Stesso discorso è quello che fa Jaques Mabit, il medico francese che in Perù ha creato Takiwasi, lui pure è persuaso che tossicodipendenti, schizofrenici, depressi e altri divergenti psichici siano potenziali sciamani che senza guida e senza brodo culturale adeguato hanno “fallito”. D’altra parte, Claude Levi-Strauss considera lo sciamano uno psicanalista selvaggio, invece secondo me lo sciamano è più simile all’antipsichiatra.
Il libro si concentra soprattutto su una pianta e il suo uso, raccontaci qualcosa sull’ayahuasca.
Oggi l’ayahuasca è la star delle pozioni psichedeliche. È oggi ciò che negli anni 50-60 era la LSD. L’ayahuasca, tuttavia, è assolutamente inafferrabile. E lo sarà anche per la scienza. Se la imbottiglierà pur chiamandola ayahuasca quella roba lì non sarà ayahuasca. Perché l’ayahuasca – o la sua versione cruda: la jurema – è un assoluto mistero. Non si sanno molte cose di lei. Chi dice che esiste da poche centinaia di anni (Samorini) chi dice che esiste da cinquemila anni (Naranjo). E poi non si sa come gli ayahuasqueros amazzonici siano riusciti, tra migliaia di piante visionarie di cui la foresta dispone, a isolare due piante, una liana (la banisteriopsis caapi) che essendo provvista di Imao, sa inibire i nostri enzimi gastrici consentendo all’altra pianta (la psicotria viridis) che viene bollita insieme, provvista di DMT, l’elemento visionario, di procurare le visioni agli umani. Tuttavia, questo è uno schemino semplice per neofiti. Le cose sono più complicate perché l’ayahuasca è un contenitore farmacologico multiuso che ogni volta cambia, perché diverso è l’umore dell’alchimista ayahuasquero che la cucina, e diverse sono le piante che possono essere aggiunte (foglie di tabacco amazzonico il cosiddetto mapacho, o qualche foglia di datura, o di coca, eccetera). E poi l’assunzione cerimoniale della bevanda dei morti si nutre dei canti con cui l’ayahuasquero accompagna la cerimonia – gli icaros – e questi hanno una parte di assoluto rilievo nell’esperienza.
A partire dagli anni ‘30 del secolo scorso, inoltre, in Brasile si sono formate delle chiese – Santo Daime, Barquinha, União do Vegetal – che per sacramento hanno proprio l’ayahuasca. Esse hanno sincretizzato la spiritualità amazzonica con quella cristiana ed è grazie a queste chiese che la bevanda ayahuasca è progressivamente uscita dalle comunità amazzoniche per raggiungere le grandi città americane o europee. Poi hanno cominciato a operare sempre più curanderos (o vegetalistas, o ayahuasqueros) sia nativi, sia meticci sia bianchi, fuori dall’istituzione religiosa sincretistica, che dal mio punto di vista – e anche dal loro, molti curanderos mi hanno detto – è comunque una limitazione per alcuni, una camicia di forza per altri. Insomma le chiese ayahuasquere, e questa sempre maggiore offerta di ayahuasqueros, ha innescato, a partire dagli anni ‘80 – anni, in Occidente, di demonizzazione, proibizione, criminalizzazione delle terapie psichedeliche – un crescente flusso di “turisti enteogeni”, ovvero persone che nel mondo moderno, scientifico, non ottenendo cura adeguata dalla medicina o dalla psichiatria, sono andati a divezzarsi da droghe (eh sì, un bel paradosso, droghe terapeutiche che curano dipendenze da droghe patogene), a curarsi depressioni e altro disturbi psichici, oppure perfino a curarsi malattie non psichiche (tumori, malattie neurodegenerative, eccetera) perché questa bevanda ahimè non sa nulla della separazione cartesiana tra mente e corpo e si considera medicina tout court, e olisticamente prova ad aggiustare quel che c’è da aggiustare. Insomma, ho fatto una sintesi molto grossolana.
Curare attraverso l’uso di piante sacre in una struttura ospedaliera può funzionare o vorrebbe dire snaturarle completamente?
La scienza non sa che farci con queste tecniche ancestrali. Il potere ne ha paura. Negli anni ‘70 reagì con la messa fuori legge. Criminalizzarle. Ora sono tornate. Al potere adesso serve un altro modo per disinnescarle. Il modo per disinnescarle adesso è addomesticarle. Portarle in ospedale e togliere – appunto – tutto l’elemento extra molecolare, ovvero il setting, che sarebbe il contesto, il rituale, il curandero, il canto, tutto ciò fa parte della cura. E proporre alle persone una versione – non visionaria si dice – più blanda. In Italia l’Esketamina è l’esempio di una molecola psichedelica attenuata.
A cura di Andrea Staid
Originariamente pubblicato su www.matrika.co